di P. José Vicente Rodríguez ocd

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Anche santa Teresa di Gesù e san Giovanni della Croce durante la loro vita hanno dovuto fare i conti con il dramma di una pandemia, il «catarro universale» del 1580. La Santa ne fu minata nella salute, fino alla morte due anni dopo. Il Santo, al tempo fondatore e rettore del collegio carmelitano della città universitaria di Baeza, in Andalusia (1579-1582), prodigò ogni cura agli ammalati a lui affidati. Intanto in quel 1580 a Medina del Campo, in Castiglia, egli perse la madre, Caterina Álvarez, vittima di un’epidemia d’influenza che fu forse per la prima volta a diffusione globale. Per commemorare la canonizzazione del padre del Carmelo riformato (27 dicembre 1726) proponiamo alcune pagine che ci fanno intravedere in quella circostanza la sua grandissima umanità.

Merita un capitolo a parte il mondo dei malati nella comunità di Baeza. In fra Giovanni vive sempre ben desto l’infermiere che fu da giovane in Medina del Campo. Ora che come superiore ha il sacro dovere di assistere i suoi malati, va a esprimere tutto il suo affetto e le sue attenzioni materne. […].

Nel 1580 si scatenò la pandemia che chiamarono «il catarro universale». Mentre fra Giovanni stava a Beas [presso il monastero delle carmelitane scalze] si dichiara la peste nel suo collegio di Baeza. Quando arriva trova tutti i religiosi, 18, a letto, senza che ce ne fosse uno in piedi che potesse occuparsi di nulla. I racconti di alcuni di loro sono da antologia. Giovanni di Sant’Anna, uno dei fondatori, narra il suo caso: «Quando tornò ci trovò tutti a letto malati, senza che fosse rimasto alcuno in piedi che potesse occuparsi degli altri. Egli arrivò giusto in tempo, ed è certo che se non fosse venuto allora alcuni di noi sarebbero morti. Lo dico di me certamente, sarei morto, perché ormai non ero più nelle condizioni di mangiare neanche un boccone. Arrivò molto afflitto» (Bibliotaca Mistica Carmelitana 26, 403). Bisogna agire con rapidità, si disse fra Giovanni, e cosa serve?

Manda a prendere molto in fretta «un quarto di carne e lo fece preparare, e lui stesso andava a portarlo e a farcelo mangiare, benché controvoglia, mettendoci davanti il merito dell’obbedienza; è fu con tanta cura e carità che in pochi giorni stavamo tutti bene» (ibidem).

In questo frangente così delicato la cosa si complica, perché arrivano altri nove malati dal convento del Calvario. Quando li vede arrivare l’economo della casa si mette in agitazione e dice al rettore che bisogna uscire a cercare tra i benefattori l’aiuto necessario al caso. Fra Giovanni gli dice, frenandolo: «Dio provvederà». E la provvidenza in questo caso arriva «con più di ventiquattro o venticinque materassi e una quantità di cuscini e lenzuola e qualche camicia». Tutta questa spedizione che nessuno ha chiesto la riceve fra Martino, allora infermiere. Egli è anche testimone che Teresa di Ibros, penitente del santo, che chiamano «la madre Teresa», porta trenta polli e molti altri regali per i malati. Fra Giovanni, vedendo tanta generosità, disse: «Vedete come è bene confidare sempre in Nostro Signore?» (BMC 14, 86; 23, 360).

A parte i buoni consigli spirituali che dà a sani e malati, nel caso di questi ultimi, oltre ad andare egli stesso a dar loro da mangiare, «raccontava loro storie per allietarli, e diceva che esse, benché fossero del mondo, non erano oziose, ma di profitto, dato che allietavano e alleviavano il malato; e così ci avvertiva che potevamo farlo senza scrupolo, visto che erano racconti molto onesti e detti molto acuti, perché non ci scandalizzassimo del fatto che raccontasse quelle storie accadute nel mondo».

Sulla base di testimonianze dirette di malati, come questo, accuditi da lui, ci incontreremmo con ciò che chiamerei le terapie del sorriso e della musica, che gli piaceva applicare ai suoi pazienti. La geloterapia e la musicoterapia.

Era così questo dolce santo, non rapito in estasi, ma che racconta storielle come esercizio di carità e squisitezza fraterna. Alle storielle aggiungeva l’uso della musica, e tutto ciò come esercizio squisito di carità fraterna:

«Aveva molta carità soprattutto con i malati e procurava di curarli e coccolarli con molta cura senza badare a spese e andava lui stesso a intrattenerli e si faceva, se necessario, come bambino per sollevarli, e a lui, che era così attento nelle cose della vita religiosa, piaceva che si offrisse musica ai malati, se essa poteva aiutarli a guarire, e che nulla mancasse loro del necessario e del dilettevole. Se vedeva che non avevano voglia di mangiare, richiamava loro alla memoria quanti generi di stufato e di cose commestibili sapeva per incitarli all’appetito, e se indicavano qualcosa a cui erano propensi, anche se fosse dubbio che lo avrebbero mangiato, se lo procurava e faceva avere; e questa attenzione la poneva allo stesso modo con il corista, il fratello laico o l’oblato» (BMC 26, 448).

Regnando quella pandemia del «catarro universale» nella città, il sagrestano del convento Martino dell’Assunzione, tanto unito a fra Giovanni, racconta: «Essendoci in casa dei miei genitori sedici malati, undici con l’estrema unzione e gli altri messi molto male, andammo noi due a casa dei miei genitori e padre fra Giovanni della Croce fece visita a tutti, e vedendomi in pena mi disse: “Non abbia pena, che di tutti e sedici quelli che stanno a letto non deve morire nessuno di questa malattia, perché così mi hanno detto”; e, siccome lo importunavo su chi glielo avesse detto, mi rispose che era chi lo poteva fare, e così fu che non morì nessuno di loro in quei sei anni» (BMC 13, 421-422).

(José Vicente Rodríguez, San Juan de la Cruz. La biografía, San Pablo, Madrid 2016, pp. 411-415. Traduzione dallo spagnolo di P. Fabio Roana ocd. In italiano è possibile leggere la recente pubblicazione del medesimo autore: Fioretti di Giovanni della Croce. Profondità dell'umano, Edizioni OCD, Roma 2019; qualche notizia sul «catarro universale» del 1580 e sulle conseguenze sulla salute di santa Teresa di Gesù in: https://delaruecaalapluma.wordpress.com/2017/12/18/el-catarro-universal/).