di F. Iacopo Iadarola ocd

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Laica nel mondo, ma da trent’anni al capezzale di malati terminali di cancro, l’autrice del libricino oggetto di questa recensione (Scolastica Blackborow, La Trinità in noi. Testi dei maestri spirituali, EMP, Padova 2020) ha affinato uno sguardo contemplativo di non poco momento, sguardo che grazie a Dio è stato condiviso tramite queste pagine.

Uno sguardo sul mistero insondabile del Dio che ci inabita, mistero coperto da veli e strati e cortine di affanni quotidiani che ci strappano la gioia di vivere e il cuore della nostra fede: quella «mistica unione» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n° 2014) con Dio cui tutti siamo chiamati, non soltanto i «mistici» di mestiere, gli eremiti, i grandi santi. «Chiediamoci se conosciamo davvero il Signore, se crediamo al suo amore per noi. Credo davvero alla sua Parola che esprime il suo profondo desiderio di aprire, anzi spalancare, la porta del mio cuore e di passare da una semplice conoscenza catechetica all’intimità con lui?»: è la sfida lanciata dall’autrice al lettore (p. 17). Si capisce che è una domanda che ha posto anzitutto a sé stessa, e a cui ha risposto andando a scuola dei piccoli e grandi maestri della fede: i malati che ha assistito, come dicevamo, in cui traspariva Cristo sofferente e abitante in loro – e i Padri e i mistici della migliore Tradizione della Chiesa, che più han saputo scandagliare il Mistero: «…il mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi. A loro Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo alle genti: Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,26-27).

A un primo sguardo, il lettore potrebbe obiettare che le pagine che ha fra le mani non sono che un centone di citazioni: ma bisognerebbe rispondergli subito che probabilmente sono le migliori citazioni che si potrebbero trovare sull’argomento. Sugli argomenti: la vita del cristiano in Cristo, l’inabitazione della Trinità in noi, la dottrina del corpo mistico, la scaturigine divina della gioia cristiana. Non citazioni devozionistiche à la page, ma un sapientissimo rapiarium in cui spicca il fior fiore della patristica (Atanasio, Ilario di Poitier, Ireneo di Lione, Agostino, Leone Magno, Massimo il confessore) e della mistica cattolica, coi santi carmelitani in testa – ed è da essi che l’autrice non nasconde di prendere il la: «Quando, cinquant’anni fa, ho preso in mano un commento alla dottrina spirituale della carmelitana francese Elisabetta della Trinità, non potevo immaginare quanto avrebbe segnato – per tutta la vita – il mio percorso spirituale […]. Per lei, la vita spirituale è tutto movimento, tensione, dinamismo dell’amore. Non ammette sosta alcuna. La vita è una cosa seria, scrive, ogni minuto ci è donato per radicarci sempre più profondamente in Dio, perché la nostra somiglianza a Lui sia sempre più evidente, la nostra unione più intima» (p. 11). E non soltanto Elisabetta, citata quasi ad ogni pagina del libro, ma anche ovviamente luminari carmelitani come Teresa d’Avila e Giovanni della Croce e carmelitani meno conosciuti come Michele di S. Agostino fino ad arrivare a carmelitani recenti come Joseph Chalmers e studiosi intrisi di spiritualità carmelitana quali Constant Tonnelier e Robert De Langeac. È grazie a questi autori che la dottrina dell’inabitazione divina e l’insegnamento sulla Trinità presente e operante in noi non rimangono un arido teologumeno ma sono illustrati con calore, e calore di sposa. Se, par fare spazio a Dio in noi, ci vien detto: «Facciamo il vuoto» (come il titolo di uno dei capitoletti del libro), questo vuoto non è un vuoto pneumatico, un vuoto buddhista di pensieri e passioni, ma il vuoto appassionato del vacare Deo, il vuoto dell’anima sposa che si fa tutta ricettività per l’ingresso del suo Sposo in lei, come Maria (rarissime e stupende al riguardo le citazioni mariane di Michele di S. Agostino, recuperate dall’autrice) o come più volte insegna la santa francese recentemente canonizzata da Francesco: «Viene in mente l’aspirazione di Elisabetta della Trinità a “essere sposa”, a “vivere con, sempre con”, in una donazione reciproca a tutto tondo» (p. 56) ; «Elisabetta della Trinità, che tanto desiderava “essere sposa”, ci insegna che l’amore per Dio non si limita a qualcosa di sentimentale. Si tratta di un impegno da coltivare…» (p. 81-82); «La gioia come frutto di un amore condiviso. Un amore che riempie di gioia Elisabetta, facendole descrivere come “essere sposa” il proprio rapporto con la Trinità». 

Ben vengano quindi queste parole gioiose e innamorate, mai troppo spesso ripetute o ri-citate, specialmente in un contesto come l’attuale in cui siamo tutti, cristiani o meno, ammaliati dalle sirene di meditazioni e di interiorità reperite a buon mercato, con tecniche malamente importate dall’Oriente e con ricettari della felicità in 56 giorni o in 8 passi: protocolli con cui l’io rientra in sé stesso, sì, ma per tornare all’io, sui propri passi, dimentico del Mistero: quella storia d’amore col Tu crocifisso che tutti ci aspetta, nell’abbraccio trinitario.