Meditazione carmelitana sulla II Domenica d'Avvento dell'anno C (Bar 5,1-9; Sal 125; Fil 1,4-6.8-11; Lc 3,1-6)

di F. Iacopo Iadarola ocd

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Nel deserto...

Nella liturgia della II Domenica d’Avvento siamo richiamati al deserto: quello di Giuda (Vangelo), quello del Negheb (Salmo), quello della nostra arida quotidianità. Infatti, per passare dall’Avvento finale del Figlio dell’Uomo, come ricordato Domenica scorsa, all’Avvento iniziale del Natale, cui ci stiamo avvicinando, la Chiesa ci insegna che bisogna passare per l’Avvento mediano dell’oggi mediocre, del Signore che viene ora, in ogni momento, nel nostro niente. Solo così, esercitandoci ad attenderlo in ogni minuto, sapremo riconoscere nel minuto corpo di un bambino il Re della Gloria. Il deserto serve a questo: lì ogni dettaglio è sovraesposto, le proporzioni si fanno eterne, disertando dal tran-tran del mondo e della sua transitorietà. Il Vangelo di questa Domenica ce lo dimostra plasticamente, nei primi versetti che ascolteremo: non nelle tetrarchie, non sotto l’imperatore, il procuratore o il sommo sacerdote, ma “venne la Parola di Dio sopra Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto” (Lc 3,2). Ma perché proprio nel deserto? Ecco cosa ci risponderebbe Teresa d’Avila:

“Alcuni santi credo che si siano rifugiati nei deserti appunto perché non avevano con chi aiutarsi" (Libro della mia vita 7,22)
“Oggi il mondo è così infatuato di prudenza che par quasi dimenticarsi delle grandi grazie accordate da Dio ai santi e alle sante che lo servirono nei deserti" (Fondazioni 28,23)
“Il Signore ispira a quest'anima un così vivo desiderio di non offenderlo, neppure nelle più piccole cose, e di evitare, potendolo, qualunque minima imperfezione, che per questo solo motivo, se altri non ve ne fossero, vorrebbe fuggire gli uomini, e invidia grandemente coloro che vivono e son vissuti nei deserti…" (Castello interiore VI,6,3)
Ma il deserto è un mezzo, mai un fine, e un mezzo per vivere un’intimità con lo Sposo che non ha nulla a che fare con l’intimismo. La sana fuga dal mondo, cristianamente e non buddisticamente intesa, è centripeta, non centrifuga. Non fuori dal mondo, ma verso il cuore del mondo che è Cristo. Il passo di Teresa appena citato, infatti, così prosegue:
“…Nel contempo vorrebbe anche cacciarsi in mezzo al mondo, per fare che anche un'anima sola lodasse Dio di più. Si duole, se è donna, che il suo sesso le sia in ciò d'impedimento, e invidia coloro che possono alzare la voce per dire a tutti chi sia questo gran Dio degli eserciti"
“E quanti santi si sono rifugiati nei deserti per potere, come S. Francesco, gridar alto le lodi di Dio" (Castello interiore VI,6,11)
Quanti santi! S. Giovanni Battista non fu il primo né l’ultimo. Prima di lui - e quasi identificato con lui (cf. Mt 11,14) - v’era stato il santo profeta Elia; dopo di lui tutti i santi eremiti che si riconosceranno discendenti di Elia e del Battista, fino al punto di immaginare, come i nostri primi monaci carmelitani, una filiazione ininterrotta, un’eredità eremitica inestirpabile che ancora oggi ha luogo nel Carmelo giuridico e spirituale. E proprio la spiritualità del Carmelo, coi suoi frati e le sue monache, ha saputo mostrare nella Chiesa e nel mondo come l’amore per il deserto non sia a scanso dell’amore per il mondo, come la vita monastica contemplativa non sia a scapito della vita mendicante ed apostolica. Un equilibrio incredibile, sempre da ricalibrare, ma che da 800 anni continua a dare frutti di santità, riecheggiando la voce del Battista, “voce di uno che grida nel deserto: «preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!»”. Nel basso medioevo, la nostra Institutio primorum monachorum esortava così gli eremiti carmelitani: “prepariamo al Signore una via verso i nostri cuori, e raddrizziamo per il nostro Dio le strade per venire a noi”; nell’Ottocento borghese, Teresa di Lisieux ancora diceva: “avrei voluto essere un’eremita e andarmene in un deserto lontano […] sentii che il Carmelo era il deserto dove Dio voleva che io andassi a nascondermi" (Storia di un'anima, Ms A, 25v°-26r°)nel Novecento dei cui lager sarà vittima, P. Jacques di Gesù esclamava: “il Carmelo è proprio il mio ideale di vita religioso: vivere in solitudine con Dio, in un contatto intimo con Lui; lasciare il proprio chiostro, per andare a portare Dio alle anime; farlo conoscere ed amare” (Lettera del 24 agosto 1927).

...preparate le vie al Signore!

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Chiostro e mondo, deserto e anime…l’antinomia è tanto apparente quanto quella che si vedrebbe fra Grazia e Legge, tra fede e opere. Una stessa tensione testuale del Vangelo sembrerebbe suggerirla, nel versetto isaiano citato dall’Evangelista: “una voce che grida nel deserto: preparate…”; o “una voce che grida: nel deserto preparate…”? Sono possibili entrambe le letture, a seconda che si prediliga il testo greco o ebraico di Is 40,3. Ovvero: il deserto lo fa Dio o lo facciamo noi? Le vie le prepariamo noi, o è Lui che le renderà praticabili riempendo i burroni e abbassando i colli (Lc 3,5)? Qual è il rapporto di collaborazione? Il Carmelo, nei suoi santi, nel suo costante anelito di autoriforma, si è sempre battuto per un sano impegno ascetico, alieno da ogni lassismo. Ma al contempo si è sempre tenuto alla larga dal rischio opposto, dal “pelagianesimo” della cui attualità Papa Francesco ci sta mettendo insistentemente in guardia: l’atteggiamento di chi, solo con le proprie opere, definizioni o strutture, crede di poter “fare strada” a Dio. Ma mai il Carmelo si è ancorato a strutture inscalfibili. Lo scalzarsi di Teresa è stato un segno magistrale; l’ascensore di Teresina ne è stato un altro, più recente. E vogliamo concludere la nostra riflessione proprio contemplando questa piccola grande santa, questa modernissima summa dell’insegnamento teresiano-sanjuanista, come la sposa del Cantico (Ct 8,5), come “colei che ascende dal deserto, ricolma di delizie, appoggiata al suo Diletto, spargendo amore da ogni lato" (S. Giovanni della Croce, Fiamma d'amor viva 1,26)

E lo faremo riportando il suo pensiero al riguardo, suggeritoci dalla stessa prima lettura di questa II Domenica d’Avvento, dal profeta Baruc: “O Gerusalemme […] Avvolgiti nel manto della giustizia di Dio, metti sul tuo capo la corona di gloria dell’Eterno […] Poiché Dio ha deciso di spianare ogni alta montagna e le rupi perenni, di colmare le valli livellando il terreno”. Sono proprio questi i versetti che Teresina ha in mente nel suo celebre Atto di offerta all’Amore misericordioso: “Alla sera di questa vita, comparirò davanti a Te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Tutte le nostre giustizie hanno macchie ai tuoi occhi. Voglio perciò rivestirmi della tua giustizia e ricevere dal tuo amore il possesso eterno di Te stesso. Non voglio altro trono e altra corona che Te, o mio Diletto!”
È con queste parole che capiamo come interpretare rettamente le letture di questa Domenica, come preparare la via al Signore che viene, ora, nella nostra incapacità e pochezza: abbandonandoci nel “deserto immenso e sconfinato" della Sua misericordia (S. Giovanni della Croce, Notte oscura II,17,6), con la Chiesa e come Chiesa (“O Gerusalemme!”). Quella Chiesa che si fa tramite della salvezza di Dio ex opere operato; quella Chiesa che chiude il suo Compendio di dottrina sociale (n° 583), sulla necessità delle nostre opere, precisamente con la preghiera di Teresina or ora citata.