di P. Giuseppe Furioni ocd

turchia 2008 i 146

La seconda domenica di Avvento risponde alle struggenti invocazioni del profeta Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi…». Dio viene a consolare il suo popolo e lo fa inviando il Figlio suo, Gesù Cristo, preceduto da un araldo, Giovanni Battista che proclama un battesimo di penitenza.

«Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio». Incomincia così il testo evangelico di Mc 1,1-8.

C’è chi suggerisce che archē, la prima parola, avrebbe potuto essere meglio tradotta con “principio”. Infatti non si tratta tanto di un avvio di carattere cronologico, ma alludendo al principio della creazione, l’offerta del criterio interpretativo di tutto ciò che seguirà; ovvero il vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, è il principio a partire dal quale tutta la realtà prende forma e significato. Ed è così offerto anche lo schema del testo evangelico che ha nelle due professioni di fede, quella di Pietro: «Tu sei il Cristo» (Mc 8,29) e quella del centurione romano: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39) i momenti più significativi.

Ma la comprensione di questo inizio, di questo principio emerge con più evidenza se lo confrontiamo con un testo greco del 9 a.C., detto Iscrizione di Priene – città fra Efeso e Mileto, nell’odierna Turchia –, inciso sulla pietra, nel quale si celebra la figura di Cesare Augusto e fa iniziare l’anno civile il giorno del suo compleanno:

«Il giorno natale del divinissimo Cesare noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (tôn pántōn archē). Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (archēn toû bíou kaì tês zōês), che segna il limite e il termine del pentimento (toû metamelésthai) di essere nati.

E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (kairòn tês eis tēn archēn eisódou), […] e poiché è difficile  ringraziare adeguatamente (kat’íson eucharisteîn) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento, […] mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia, Paolo Fabio Massimo, a nome della città] che tutte le comunità abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre […].

Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (euangélia pántōn), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno genetliaco del dio fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (hêrxen dè tôi kósmōi tôn di’autòn euaggelíōn)».

Si noti che qui compare per due volte il termine “vangeli”: Augusto è l’origine dei “lieti annunzi”, dei “vangeli” portati al mondo. Qui l’espressione, però, è al plurale. Sono tanti i fatti di bene che la nascita dell’imperatore porta con sé. Invece, nel Nuovo Testamento “vangelo” è sempre al singolare, poiché il dono divino è “il” vangelo di Cristo stesso, è la sua presenza in mezzo a noi, è la sua stessa vita donata.

Ma certo il testo imperiale mostra come Augusto volesse essere considerato, come “salvatore” di una vita altrimenti infelice. Nel primo volume dell’opera Gesù di Nazaret, J. Ratzinger – Benedetto XVI, ha commentato incisivamente la continuità e la novità dell’utilizzo del termine “vangelo” nel linguaggio neotestamentario:

«Di recente la parola “vangelo” è stata tradotta con l’espressione “buona novella”. Suona bene, ma resta molto al di sotto dell’ordine di grandezza inteso dalla parola “vangelo”. Questa parola appartiene al linguaggio degli imperatori romani che si consideravano signori del mondo, suoi salvatori e redentori. I proclami provenienti dall’imperatore si chiamavano “vangeli”, indipendentemente dalla questione se il loro contenuto fosse particolarmente lieto e piacevole. Ciò che viene dall’imperatore – era l’idea soggiacente – è messaggio salvifico, non è semplicemente notizia, ma trasformazione del mondo verso il bene. Se gli evangelisti riprendono questa parola, tanto che a partire da quel momento diventa il termine per definire il genere dei loro scritti, è perché vogliono dire: quello che gli imperatori, che si fanno passare per dèi, pretendono a torto, qui accade veramente: un messaggio autorevole, che non è solo parola, ma realtà. Nell’odierno vocabolario proprio della teoria del linguaggio si direbbe: il Vangelo è discorso non solo informativo, ma operativo, non è solo comunicazione, ma azione, forza efficace, che entra nel mondo salvandolo e trasformandolo. Marco parla del “Vangelo di Dio”: non sono gli imperatori che possono salvare il mondo, bensì Dio. E qui si manifesta la parola di Dio che è parola efficace; qui accade davvero ciò che gli imperatori solo pretendono, senza poterlo adempiere. Perché qui entra in azione il vero Signore del mondo: il Dio vivente» (pp. 69-70).