di F. Iacopo Iadarola ocd
Ain Karem
Nuovo risveglio a Gerusalemme! Domenica 26 aprile, dopo dodici giorni di pellegrinaggio, è l’ultimo giorno di visita in Israele: ci aspetta una lunga passeggiata, di almeno una dozzina di km, dalla Città vecchia di Gerusalemme al sobborgo di Ain Karem, il luogo tradizionalmente associato alla Visitazione di Maria a sua cugina Elisabetta. Ci alziamo “in fretta” come Maria (Lc 1,39) e ci incamminiamo per la città, lasciandocela sempre più alle nostre spalle. Fra il centro storico e la periferia passiamo per dei modernissimi quartieri residenziali e amministrativi (siamo vicino agli organi centrali di Israele: il Parlamento, la Corte Suprema, lo Yad Vashem), ma con uno stile inconfondibilmente anni ’30: tutti i palazzi sono austeramente squadrati e ricoperti di lastroni di granito che ricordano da vicino i lastroni di marmo dell’edilizia fascista, o i palazzi dei quadri di De Chirico. L’atmosfera che se ne ricava è la stessa: una surreale solennità, una solidità forzata, fuori dal tempo. Non voglio certo dire che Israele si ispiri a uno Stato totalitario, ma qui mi pare evidente che ideologie simili a monte, quali ad esempio il patriottismo etnico e il militarismo, sortiscano effetti analoghi a valle. Proseguendo oltre verso la periferia della città, i palazzoni si diradano sempre più in quella che è chiamata “la foresta di Gerusalemme”: un vero e proprio bosco alle porte della città, in cui ci inoltriamo per un idilliaco sentiero fra pini e cipressi piantati negli anni ’50, e dove dimorano scoiattoli e sciacalli.
A un certo punto dal folto della foresta ci riaffacciamo sul delizioso borgo residenziale di Ain Karem, che pare sia stato eletto a dimora da facoltosi abitanti di Gerusalemme con la vena artistica: ci sono molte botteghe di artigianato, di ceramisti: ma pare più per hobby che per commercio. Facciamo la spesa in un supermercatino e i prezzi sono elevatissimi: è decisamente un posto per ricchi. Facciamo pausa in un piccolo parco giochi e mentre mangiamo i nostri panini pieni di questi salati salumi, siamo rallegrati dalla visita di una scolaresca di bambini in gita: ma non è che ci degnino di molta attenzione – anzi quasi nessuna - a differenza dei festosissimi bambini palestinesi che avevamo incontrato a Betania o Gerico. In compenso una delle loro animatrici, una giovanissima ragazza israeliana vestita un po’ demodé, fra il frullare dei bambini si avvicina incuriosita e sorridente per farci qualche domanda: anche lei non sa cosa sia un frate, ed è la prima volta che parla in inglese con degli stranieri…non è mai stata fuori Israele! Si chiama Ashira (in italiano sarebbe “Cantica”, è lo stesso termine da cui il Cantico dei Cantici) e non è proprio un’israeliana doc, quali le sue colleghe più adulte lì vicino: le quali, ci avverte, non possono ricevere dei dolcetti che offriamo loro perché contro le regole rituali di purità. Ma non sono tutte così, e infatti lei li mangia senza fare complimenti! Graziosa e solare, mi pare l’immagine di un Israele primigenio, prefarisaico, libera dai condizionamenti delle sue colleghe sussiegose e castigate...
Un po’, forse, come lo dovette essere Maria, scandalosamente controcorrente per il suo voto di verginità, ma pur con una gioia travolgente che si portava in cuore e nel grembo quando corse su questi monti, per andare incontro a sua cugina Elisabetta. Non abbiamo certezza che fosse proprio qui, il Vangelo di Luca è molto vago al riguardo, ma una deliziosa chiesetta retta dalla Custodia di Terra Santa vi commemora l’episodio del Magnificat seguendo una tradizione secolare. Qui celebriamo la nostra messa domenicale in una cappellina a cielo aperto, sotto un azzurro sconfinato e fra profumati tralci di gelsomino che ci ricordano il semplice fascino della Vergine: come dice p. Gianni, la sua umiltà fu così abissalmente profonda da farvi capitombolare lo stesso Dio, che all’umiltà di quella serva stava guardando…
Subito dopo visitiamo l’altro luogo principale di Ain Karem, che è la Chiesa dedicata alla Natività di S. Giovanni Battista, costruita su resti risalenti addirittura al V secolo. La chiesa, anche questa del Barluzzi, è interamente rivestita di maioliche azzurre, che danno uno stupendo senso di freschezza e purezza, e conserva l’accesso a una grotta naturale che secondo una tradizione tardiva (IX secolo) è il luogo dove nacque il Battista, e che veneriamo in silenzio.
Il rientro
Tornando, ripercorriamo la foresta di Gerusalemme, dove giovani rabbini si rilassano fumando narghilè portatili (richiudibili in apposite valigette), e passiamo per il principale corso commerciale di Gerusalemme, fra negozi d’alta moda e ristoranti di lusso: tutto modernissimo, a parte un muro ricostruito con pietre della Città vecchia, numerate e ricollocate esattamente nello stesso ordine che avevano nel vecchio muro, distrutto in chissà quale delle numerose vicende belliche della città: ma i numeri sulle pietre sono stati lasciati volutamente in bella vista, e più che un muro ora sembra un cruciverba! Ma proprio per questo è molto suggestivo perché ben rappresentativo della caratteristica indole ebraica di tutto conservare, catalogare, incasellare nell’albo dei ricordi. Come una sorta di culto della memoria. E benché a volte possa sembrarci un po’ retorico, abbiamo comunque da prendere esempio anche da questo atteggiamento – proprio di recente il Papa, nel suo commosso discorso ai sacerdoti e religiosi a Sarajevo, ha affermato con forza che chi ha sofferto, chi è stato martirizzato, non ha il diritto di dimenticare: “Questa è la memoria del vostro popolo! Un popolo che dimentica la sua memoria non ha futuro. Questa è la memoria dei vostri padri e madri nella fede…non avete diritto di dimenticare la vostra storia”. Ma ha poi aggiunto: non dimenticare “non per vendicarvi, ma per fare pace”.
Rientrati all’ostello passiamo di fretta al mercato di Gerusalemme, vicino la stazione degli autobus, per comprare (sempre grazie alle lunghe trattative di p. Paco coi commercianti…) il necessario per la nostra ultima cena. Don Gabriele e fra Fabio si sbizzarriscono ancora e preparano un’ottima spaghettata e una frittata gigante per chiudere in bellezza. E così, con molta semplicità, concludiamo il nostro pellegrinaggio. Il discorso conclusivo di p. Gianni verte proprio su questo: un pellegrinaggio è come il cammino spirituale di una persona. Ovvero non sta tanto nei grandi botti di sentimento, in locuzioni interiori o picchi contemplativi – può essere anche in questi – ma ordinariamente è nel cammino quotidiano, quando non senti niente, o senti solo fatica o dolore, ed è lì che cresciamo: nella “notte della fede”, come ci insegna il nostro santo Padre Giovanni della Croce, che non è un evento iperuranico per pochi mistici, ma qualcosa che può passare anche per i nostri acciacchi e le nostre vesciche, per le nostre incomprensioni e frustrazioni quotidiane che sembrano annichilire tutti i nostri aneliti di anime belle…è proprio lì che cresciamo, è proprio lì che comprendiamo che “il Signore è qui che ti chiama”, qui e non altrove, qui dove tu sei spento e smorto e scarico e capisci che ciò è provvidenziale affinché subentri Lui: perché un mistico lo fa Dio, facendosi breccia in noi, e non noi coi nostri bei sentimenti o approfondimenti di significati. Solo allora scopri che l’interiorità è il contrario dell’estraneità – e non dell’esteriorità; che l’interiorità è relazione – e non intimismo. Che questa scuola d’interiorità la si frequenta camminando insieme, in un pellegrinaggio, in una comunità.
E quant’è carmelitano e teresiano tutto ciò! Mi vengono in mente le parole di Papa Francesco, nel suo messaggio al vescovo di Avila per l’apertura del Cinquecentenario della nascita di S. Teresa di Gesù che stiamo celebrando: “Questo cammino non possiamo farlo da soli, ma insieme. Per la santa riformatrice il sentiero della preghiera passa per la via della fraternità in seno alla Chiesa madre. Fu questa la sua risposta provvidenziale, nata dall’ispirazione divina e dal suo intuito femminile, ai problemi della Chiesa e della società del suo tempo: fondare piccole comunità di donne che, a imitazione del «collegio apostolico» seguissero Cristo vivendo in modo semplice il Vangelo e sostenendo tutta la Chiesa con una vita fatta preghiera. Per questo «sorelle» ci ha «riunite qui» (Cammino 8, 1) e questa fu la promessa: «Egli, Gesù Cristo, sarebbe stato con noi» (Vita 32, 11). Che bella definizione della fraternità nella Chiesa: camminare insieme con Cristo come fratelli! A tal fine Teresa di Gesù non ci raccomanda molte cose, ma solo tre: amarsi molto gli uni gli altri, distaccarsi da tutto e vera umiltà, che «sebbene sia da me nominata per ultima, è la virtù principale e le abbraccia tutte» (Cammino 4, 4). Come vorrei, in questi tempi, delle comunità cristiane più fraterne dove si faccia questo cammino: procedere nella verità dell’umiltà che ci libera da noi stessi per amare di più e meglio gli altri, soprattutto i più poveri! Non c’è nulla di più bello di vivere e morire come figli di questa Chiesa madre!”
Questo cammino e questo pellegrinaggio, dunque, non si concludono certo a Tel Aviv, dove riprendiamo l’aereo del ritorno. P. Gianni ce lo ribadisce dopo qualche giorno, quando ancora non avevamo finito di rimettere a posto gli zaini: dobbiamo ancora fare l’ultima tappa, il pellegrinaggio popolare alla Madonna della Neve di Adro! Il nostro cammino cominciato in Terra Santa è continuato lì (e stavolta i 25 chilometri del percorso sono stati una passeggiata!) con Maria, questa semprevergine ragazza madre che ci fa tutti figli Suoi, noi e il santo popolo di Dio. Attraverso una Francia Corta ben lontana dalla Palestina, in tutti i sensi, ma in cui Gesù cammina altrettanto, continua a camminare pellegrino stanco e felice, nascendo nei nostri passi.
(per leggere i resoconti delle altre tappe clicca qui)
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