di F. Iacopo Iadarola ocd

tappa settima

7° tappa: Gerico-Betania

Wadi Qelt

Una nuova giornata a Gerico: deve essere qualche solennità del calendario musulmano, perché dai minareti non cessano di rimbombare sure del Corano, a partire dalle 4 di stamattina...mi allietano molto di più le risa cristalline dei bambini che sciamano nella struttura dove siamo alloggiati: un asilo gestito dalla parrocchia dei francescani. Bambini dagli occhi di stelle e dai sorrisi di un’innocenza così candida che ti fa dimenticare tutto lo sporco e lo squallore delle strade polverose di Gerico.

Ci riuniamo: P. Gianni ci propone un momento di confronto per tirare un po’ le fila e fare mente locale della valanga di sentimenti, pensieri, impressioni che ci ha travolto sino ad ora da quando siamo atterrati in Israele: “…perché il Signore a volte parla a te direttamente, a volte a un tuo fratello, e di questa parola possiamo nutrircene tutti!”. E così, in circolo - fra le urla dei pavoni che i francescani tengono in giardino e gli invitatori dei megafoni dei minareti - ognuno apre il proprio cuore per gli altri. Mi colpiscono in particolare le parole di F. Fabio Dal Fiume, della provincia lombarda (ma provvisoriamente nella nostra provincia per motivi di studio), per il quale se i Francescani sono i custodi della Terra Santa, i Carmelitani sono i custodi della sua promessa, della sua vocazione: altrettanto santa aggiungo io, e ricordo che il 13 giugno verrà ordinato sacerdote a Brescia! Michele parla dei passi di Gesù, che si son confusi coi nostri passi, in un contrasto fecondo che abbiamo vissuto ogni giorno fra la Sua presenza reale, nella S. Messa, e il Suo compimento nel nostro cammino, nella nostra vocazione. Francesco Conte ricorda quanto è stato bello camminare tutti insieme, spronato da chi era in prima fila e accompagnando chi era indietro.

Don Gabriele ha fatto un paragone molto semplice e molto appropriato, si parva licet componere magnis, fra i nostri zaini e la croce del Signore;  P. Gianni ci ha ricordato come in questo cammino è stato bello tenere gli occhi fissi su di Lui: “il Maestro è qui e ti chiama”, secondo il titolo del nostro pellegrinaggio, e Lui ci chiama per aiutarci ogni giorno a combattere contro l’individualismo che ti fa stare in disparte e contro la dissipazione che potrebbe provocarti lo stare in compagnia, tenendo per caro ogni fiore colto pensando a Lui, e ogni fiore non colto perché più importante e più bello di ogni fiore è Lui…

Infine, ricordo le parole del più giovane della compagnia, Francesco Palmieri (in cui mi pare si sia verificato davvero quel passo della regola benedettina: “spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore”), che è poco più che ventenne: il pellegrinaggio, dice Francesco, forse non lo stiamo facendo noi, ma è Lui che lo sta facendo, che lo ha già fatto, e mentre camminava duemila anni fa già pensava ai nostri volti, ai nostri nomi...”in questo senso allora non mi sento di essere io venuto qui a cercare Gesù, perché è Lui che ti cerca, che prende l’iniziativa, è Lui che ti chiama…”

Lasciamo Gerico alle prime luci dell’alba, e il buon Dio sembra farci l’occhiolino in un maestoso smembrarsi di nubi attorno al sole, come pupilla luminosa:

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io e fra Fabio Roana trasaliamo a questo spettacolo, mentre recitiamo camminando i salmi delle lodi: “Parlava loro da una colonna di nubi: obbedivano ai suoi comandi e alla legge che aveva loro dato…Esaltate il Signore nostro Dio, prostratevi davanti al suo monte santo, perché santo è il Signore, nostro Dio”. E questo monte santo è esattamente la mèta verso cui siamo diretti: Gerusalemme, come ci ricorda l’altro salmo che cantiamo quella mattina, provvidenzialmente predisposto nella liturgia delle Ore: “Le sue fondamenta sono sui monti santi; il Signore ama le porte di Sion più di tutte le dimore di Giacobbe. Di te si dicono cose stupende, città di Dio!”

La palazzine della periferia di Gerico, intanto, si diradano man mano e comincia la ripida ascesa a questi “monti santi” (da Gerico a Gerusalemme sono quasi 1000 metri di dislivello!), lungo le brulle pendici dei rilievi della Giudea. Saliamo per la gola del wadi Qelt, su un sentiero sassoso e desertico, costeggiando piccoli canyon e insenature di nuda roccia. Fra queste, come incastonato, ammiriamo il gioiello del monastero ortodosso di S. Giorgio Cosbita, e i resti di un acquedotto fatto costruire da Erode il Grande. Osserviamo poi l’antico tratturo (inagibile perché in parte franato) su un crinale vicino, il tratturo che doveva percorrere Gesù salendo a Gerusalemme, e che doveva discendere l’uomo che andava a Gerico della parabola del buon samaritano, in cui i Padri giustamente hanno visto ogni uomo che scende in questa vita, ferito a morte dal peccato. Le vegetazione è praticamente assente, eccettuato qualche rado fiore desertico, fra cui uno piccolissimo, viola, ma che profuma come un mazzo di rose: quale sorpresa quando P. Paco ci dice che qui lo chiamano “il fiore del Carmelo”. Incrociamo poi un paio di beduini, a spasso con il loro cammello, o con qualche mercanzia da vendere ai pellegrini. Dopo 3 ore di cammino, tutto in salita, giungiamo alla statale che ci farà entrare a Gerusalemme, ma passando prima per Betania.

Betania

Anche qui, per ragioni di sicurezza ai posti di blocco, dobbiamo procedere a bordo di autobus. Che ci porta nel chiassoso sobborgo di Betania, sobborgo prevalentemente musulmano (zona B) alle porte di Gerusalemme. Un tempo era collegatissimo con Gerusalemme est: raggiungerla era una bazzecola. Ora, dopo la seconda intifada (scoppiata nel 2000), dallo Stato Israeliano è stato costruito un muro che ha separato il sobborgo dalla capitale nella maniera più drastica, dividendo terre e famiglie che ora si trovano al di là e al di qua di una barriera impenetrabile di filo spinato e guardiole. Ci sono dei varchi ogni tot chilometri, ma lì bisogna aspettare ore di fila e identificarsi ogni volta fra i mitra dei militari israeliani. Anche noi veniamo passati in rassegna da una soldatessa che sale a bordo dell’autobus e cui dobbiamo mostrare i nostri visti e passaporti.

Finalmente scendiamo: ci aspetta la Chiesa di S. Lazzaro (da cui prende nome, tra l’altro, il nome arabo dell’intero sobborgo di Betania: Al-Azariya). Chiesa progettata dal consueto Barluzzi (architetto che ha costruito quasi tutte le chiese dei luoghi santi di Israele), negli anni ’50, ma nei pressi di una chiesa di epoca crociata e ancor prima bizantina. Qui celebriamo la messa votiva dei Santi Lazzaro, Marta e Maria, questa famiglia singolarmente amata da Gesù che qui viveva. Per Lui che non aveva dove posare il capo, la loro casa era un angolo di riposo, questo luogo era un cantuccio di puro amore in un contesto quale quello di Gerusalemme che gli si faceva sempre più furiosamente ostile: non è difficile immaginare con quale sollievo venisse qui per ricaricarsi, molto umanamente, prima di affrontare con decisione i suoi nemici e il suo destino. E’ quanto dovette immaginare anche la Santa Madre Teresa, secondo quanto ci racconta nelle sue Relazioni spirituali e favori celesti (n°26): “da più di trent'anni, il giorno delle Palme, quando potevo, mi accostavo alla comunione cercando di prepararmi l'anima in modo da offrire ospitalità al Signore, parendomi che gli ebrei fossero stati ben cattivi, quando, dopo averlo accolto con tanto trionfo, lasciarono che andasse a mangiare lontano”: cioè a Betania (cf. Gv 12,1). E Teresa di Gesù per prepararsi in quel giorno non mangiava se non alle tre di pomeriggio, dando il suo pasto a un bisognoso in cui vedeva ripresentarsi il suo amato Signore: in molti conventi e monasteri del nostro Ordine questa usanza è ancora viva, e per la Domenica delle Palme si organizzano varie attività caritative, col cuore tutto teso ad ospitare Gesù. Sì, noi carmelitani abbiamo un debole per Betània, e per questo P. Gianni ci ha tenuto molto a che venissimo qui, benché non fosse nel percorso originariamente ideato da P. Paco. Perché qui, in fondo, c’è tutto il cuore della spiritualità del Carmelo, spiritualità semplicissima, spiritualità di chi è innamorato e basta, in un’orazione che secondo le parole di Teresa “non è altro che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati” (Libro della mia vita 8,5): ciò che hanno fatto Lazzaro, Marta e Maria, e per cui il Signore li aveva così cari. Ciò che ogni cristiano dovrebbe fare, e certo non solo i carmelitani (tant’è che la citazione appena riportata è presente anche nel Catechismo della Chiesa Cattolica, al n°2709), affinché ognuno possa sentirsi dire “di nascosto”, e col cuore in gola, “Il Maestro è qui che ti chiama”. Questo disse Marta a Maria, sulla soglia della gioia di veder risorto il proprio fratello Lazzaro (Gv 11,28). E allora Maria, come presagendolo, ”si alzò (‘risorse’) subito e andò da lui”, da Gesù. Ecco ciò che accade se rispondiamo a quella chiamata: risorgiamo, di una vita e di una gioia e di una risurrezione che sono già da ora, già da ora, e non relegata agli ultimi giorni come la resurrezione in cui pur credeva Marta (Gv 11,24), o legata al fatto fisico, come la resurrezione vissuta da Lazzaro.

Maria ci parla di una resurrezione ancora più entusiasmante, di chi dalla disperazione o dal peccato (e con S. Gregorio Magno e tutta la tradizione occidentale, nessuno ci vieta di identificare Maria di Betània con la Maddalena) risorge all’amicizia con Cristo. Nascono allora cose grandiose, come l’unzione di Gesù coi “trecento grammi di profumo di puro nardo assai prezioso” (Gv 12,3) da parte della Maddalena - che sempre qui a Betania è avvenuta - cose grandiose di cui lo stesso Gesù è rimasto ammirato come non mai, dicendo: ”In verità io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13; Mc 14,9). In quel gesto di spreco totale – in Marco anche il vaso d’alabastro è frantumato e sprecato – Gesù ha visto la figura e l’anticipo più eloquente dello spreco totale di sé che stava per compiere sulla Croce. Spreco totale che, ancor prima, dice la cifra di Dio e l’esuberanza del Suo Creato, mistico big bang che dice la quintessenza dell’Amore, che è anni luce dal do ut des, ma piuttosto una spropositata folle esagerata sovrabbondanza di gratuità…che può innescare una spropositata folle esagerata sovrabbondanza di gratuità da parte nostra. Maria a Betània ne è stata capace, e non trovo parole migliori, per concludere questa visita in questo santissimo luogo, di quelle di S. Teresina a commento del suo gesto: “Noi non siamo delle fannullone, delle prodighe. Gesù ci ha difese nella persona della Maddalena. Era a tavola, Marta serviva, Lazzaro mangiava con Lui e i discepoli. Quanto a Maria, non pensava a prendere cibo, ma a far piacere a Colui che amava. Così prese un vaso colmo di un profumo di grande valore e spezzando il vaso lo sparse sul capo di Gesù... Allora tutta la casa fu invasa da quel profumo, ma gli apostoli mormorarono contro Maddalena!... È proprio come per noi: i cristiani più fervorosi, i sacerdoti trovano che siamo esagerate, che dovremmo servire con Marta invece che consacrare a Gesù i vasi delle nostre vite, con i profumi che vi sono racchiusi... E tuttavia che importa che i nostri vasi siano spezzati se Gesù è consolato e, suo malgrado, il mondo è obbligato a sentire i profumi che ne esalano e che servono a purificare l’aria avvelenata che non smette di respirare?” (Lettera a Celina del 19 agosto 1984, n° 169).

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