di P. Antonio Maria Sicari ocd

MISERICORDIA O RIVOLUZIONE?

s.-alberto-adamoSant’Alberto Chmielowski (1845-1916).

Il suo nome di battesimo era Adamo e a Varsavia era ormai noto come un promettente e geniale pittore. Ma la sua intensa fede cristiana gli poneva sempre nell’anima la domanda «Qual è lo scopo dell’arte? Qual è il destino dell’artista?». Da tempo si dedicava alla composizione di un Ecce homo (una tela che gli risultava sempre incompiuta) finché comprese che non sarebbe mai riuscito a creare quel capolavoro che sognava (oggi è posto sulla sua tomba!), se non si fosse prima dedicato a restaurare nei poveri l’immagine di Cristo sofferente. Vestì una povera tonaca e si fece chiamare fratel Alberto. Si prese cura di alcuni indigenti nella sua stessa abitazione, poi decise di visitare i barboni ammassati nei dormitori pubblici di Cracovia, dove nessun borghese osava mai avventurarsi.

Quando vi penetrò, lo minacciarono di morte al solo vederlo. E Chmielowski comprese che quella miseria era talmente eccessiva che non poteva essere consolata né soccorsa, se non a una condizione: «Bisogna vivere con loro! Non si può lasciarli così!»Vendette tutti i suoi quadri e andò a vivere tra loro, approfittando dell’estate (quando i dormitori si svuotavano) per far restaurare, rinnovare e abbellire quegli orribili ricoveri e trasformarli in “case di assistenza”. Poi si fece mendicante a favore dei suoi barboni.

«Ecco Adamo Chmielowski – quello che prima era un celebre pittore – che si è fatto padre dei poveri!», diceva la gente quando lo vedeva girare per i mercati, seduto su un enorme carretto che si era fatto appositamente costruire, per questuare viveri per i suoi poveri: «Chiedeva l’elemosina con umiltà e con un dolcissimo sorriso, e riceveva le offerte quasi con le lacrime agli occhi per la gratitudine. Non si capiva chi era più felice, se chi riceveva o chi dava».

Aveva radunato attorno a sé molti collaboratori, fino a fondare una congregazione maschile e una femminile, che praticavano la povertà assoluta: chi chiedeva di entrarvi doveva prima donare ai poveri tutto ciò che possedeva. E la gente diceva che per le strade di Cracovia si aggirava un nuovo S. Francesco. Lui ai suoi collaboratori spiegava: «Io guardo Gesù nella sua Eucaristia, il suo amore poteva forse provvedere qualcosa di più bello? Se Egli è pane, diventiamo pane anche noi, donando noi stessi!». E ripeteva loro instancabilmente: «Bisogna essere buoni come il pane!».

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Non è, come si vede, una vicenda diversa da quelle che abbiamo già raccontato (ed è significativo che in tutte ritornino sempre gli stessi temi!), ma merita di essere considerata a parte perché ebbe una forte rilevanza culturale. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che fra Alberto operò in Polonia proprio negli anni in cui stava per scoppiare in Russia la rivoluzione comunista, ed anche a lui veniva spesso da pensare che quell’insostenibile miseria dei derelitti lasciasse presagire un incendio pronto a scoppiare e a distruggere la società.

La notizia straordinaria (che si trova negli atti del processo di canonizzazione di fra Alberto) è questa: sembra che egli abbia avuto modo a Cracovia di incontrare Lenin, allora in esilio, e di discutere con lui su tale questione: «La forza dei poveri sta nella loro ira (opportunamente guidata e convogliata) o sta nella carità, nella solidarietà e nella riscoperta del radicalismo cristiano?».

Misericordia, dunque, o rivoluzione?

Ebbene, proprio alla vicenda di Fratel Alberto Chmielowski, volle dedicare un’opera teatrale un giovane prete, appena ordinato sacerdote, che si chiamava Karol Wojtyła, e che era nato appena quattro anni dopo la morte di lui. Il dramma (intitolato «Fratello del nostro Dio»1scritto nel 1949) racconta la storia di Adamo Chmielowski e del suo incontro con Lenin (indicato come Lo Sconosciuto).

Dapprima il pittore “caritatevole” subisce, accasciato, l’accusa sconvolgente che “Lo Sconosciuto” gli getta addosso: la carità serve solo a mantenere la povera gente nell’indigenza, lasciandola «doppiamente avvilita; doppiamente: una volta dalla miseria e un’altra dalla carità!». «Non è questa la via giusta!» – insiste il rivoluzionario – «Ciò non rafforza l’immensa ira collettiva, ma la scarica, la ottunde (...). Tu inganni la gente; [la tua carità] serve solo a disperdere la forza del popolo».

Poi egli entra nel ricovero e arringa così il popolo dei dormitori: «Non state ad aspettare la carità! La carità vi umilia. Voi non ne avete bisogno. Dovete capire che tutto vi appartiene assolutamente. Niente per grazia. La carità è un’ombra tesa in cui un misterioso, incomprensibile riccone cerca di nascondere il suo vero volto. Guardatevi dagli apostoli della carità! Sono i vostri nemici». Intanto, in un angolo, Adamo, sussurra piano piano, ma ripetutamente (come se il suo cuore facesse eco al sentimento di quei miseri): «Prova a metterti al posto nostro! Prova a metterti al posto nostro!»Ed, infatti, una voce si leva dal coro di quei poveracci che cacciano via l’oratore: «Tu sei lontano da noi, e noi siamo lontani da te». E un’altra voce insiste: «Vedi, noi sappiamo una cosa sola: chi vive con noi sa tutto di noi. Gli altri non sanno niente!». 

Alla fine sarà fra Alberto a spiegare allo Sconosciuto dove stia il suo irreparabile errore: «La miseria dell’uomo – gli dice – è più grande di tutti i beni disponibili di cui lei parla. Più grande di tutti i beni che l’uomo può ottenere con la forza della sua ira». Poi aggiunge splendidamente: «Sono sicuro, credo e so, che l’uomo deve ottenere tutti i beni. Tutti. Anche i più grandi. Ma qui ormai l’ira inganna, qui è necessaria la carità!».

Questo dialogo può sembrare soltanto frutto di fantasia artistica, senza molti riferimenti storici, ma la realtà è molto più profonda e complessa. Infatti tutte le parole sono state scritte da K. Woityła che, da giovane aveva già imitato fratel Alberto, trovando nel suo esempio la forza di rinunciare anche lui alla sua passione artistica per il teatro, per «dare l’anima», nella strada del sacerdozio.

In seguito, divenuto Papa, le riflessioni sulla «rivoluzione della carità» – fatte negli anni giovanili per interpretare la missione del frate-pittore – sarebbero diventate magistero pontificio: verità proclamate in faccia al mondo, in tutte le nazioni dove i cristiani erano tentati di affidare la liberazione dei poveri alla violenza rivoluzionaria. Frutto maturo di questa giovanile intuizione sarà, appunto, l’enciclica Dives in misericordia, che san Giovanni Paolo II ha donato alla Chiesa e al mondo.

E se fratel Alberto moriva proprio alla vigilia di quella rivoluzione sovietica che sembrava dar ragione all’analisi sociale di Lenin, al punto da segnare per decenni la storia del mondo, alla fine – per mezzo dell’opera e del magistero di Giovanni Paolo II – sarebbe stato il messaggio di fratel Alberto a trionfare su ogni utopia marxista-leninista. Non a caso il Pontefice deciderà di canonizzarlo proprio in quel fatidico 1989, che ha segnato la fine del regime comunista.

Note:

1 In italiano: Fratello del nostro Dio, LEV, Città del Vaticano 1982. Da esso, nel 1997, ha tratto un film il regista Krzysztof Zanussi.