di F. Iacopo Iadarola ocd

tappa nona

9° tappa: Gerusalemme

Gerusalemme: città della pace. Eppure dovrò cominciare il resoconto della visita di questa città con un brutale fatto di cronaca di cui siamo stati quasi testimoni: l’uccisione di un adolescente palestinese nello stesso quartiere (chiamato El Tur, sul Monte degli Ulivi) dov’è il monastero delle nostre carmelitane scalze, in Gerusalemme est, vicino la Chiesa del Padre Nostro.

Ci rendiamo subito conto che è successo qualcosa di grosso quando vediamo che tutte le linee degli autobus che dovrebbero portarci a El Tur sono sospese, mentre agli incroci sono stati installati numerosi posti di blocco con militari armati fino ai denti. Lì per lì ci arrivano solo voci circa l’uccisione di un palestinese che avrebbe accoltellato un ufficiale dell’esercito israeliano, ma le notizie sono confuse e discordanti…solo ora, comparando varie fonti di informazione, ricostruisco che fra il venerdì sera e quel sabato mattina, 25 aprile, erano stati uccisi dai militari israeliani ben due giovani palestinesi: il primo pare che avesse accoltellato un ufficiale israeliano e fosse stato per questo motivo ucciso, a Hebron, nella West Bank. Il secondo omicidio è quello che abbiamo vissuto da vicino, e le circostanze della morte sono ancora nel mistero. Per le fonti vicine agli israeliani questo ragazzo di 16 anni - Ali Sa’id Abu Ghannam - sarebbe corso con una mannaia in mano verso un check-point, e non essendosi fermato a distanza di sicurezza, sarebbe stato ucciso dai soldati israeliani. Per le fonti vicine ai palestinesi invece il ragazzo stava passeggiando insieme a una sua giovane parente e si sarebbe imbattuto in alcuni militari israeliani che avrebbero cominciato a fare apprezzamenti sulla ragazza; ne sarebbe conseguita una reazione da parte del giovane che avrebbe provocato lo sparo dei soldati israeliani. E chi lo sa dov’è la verità. Certo è - ed è un fatto singolare – che l’esercito israeliano si è rifiutato di concedere ai legali della famiglia del morto le riprese video della strada in cui avvenne l’uccisione (tutte le strade di Gerusalemme, infatti, sono sotto l’occhio delle telecamere).

Monte degli Ulivi

Amara introduzione alla città di Gerusalemme, ma che forse la dice lunga, molto più di un’introduzione storico-artistica, sul clima che si respira in città e sulle palpabili tensioni che la attraversano: all’uccisione del giovane sono seguite proteste nel quartiere e nei villaggi vicini, con conseguenti rastrellamenti dell’esercito e ulteriori violenze. Proteste che quella mattina, quando eravamo lì nel quartiere, dovevano ancora scoppiare, ma da cui P. Paco ha saputo sapientemente tirarci fuori, facendoci uscire immediatamente da El Tur subito dopo la visita alle nostre monache. Mi chiedo se ai tempi di Gesù non ci fosse stato un clima simile per l’occupazione romana, allorché c’era il rischio di sedizioni ad ogni momento, e violenze e rappresaglie si susseguivano ossessivamente. E mi dà pace pensare che la risposta a tutto questo, l’unica risposta possibile, allora come oggi, sia il Padre nostro. Gesù lo avrebbe insegnato ai suoi proprio qui, in questo quartiere dell’occupata Gerusalemme est – c’è una Chiesa che lo commemora, e anche il nostro Carmelo lì è intitolato al Pater Noster – su questo Monte degli Ulivi da cui dobbiamo discendere in fretta e furia. Senza neanche poterne godere più di tanto lo stupendo panorama verso Gerusalemme, lo stesso che vide Gesù e che lo fece piangere (e c’è un’altra Chiesa, detta del Dominus flevit che commemora ciò), come raccontato in Lc 19,41-44: “…alla vista della città pianse su di essa dicendo: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte; distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata»”. Pianse dicendo questo, perché invece di fare questa funesta profezia - che dura a tutt’oggi - quanto avrebbe voluto, invece, raccogliere la Città santa “come una chioccia i suoi pulcini” (Lc 13,34). Ma purtroppo, sempre su questo Monte degli Ulivi, se ne sarebbe dovuto andare ascendendo al Cielo (anche quest’evento è qui commemorato, in ben tre chiese diverse) e lasciando una Gerusalemme ancora abbandonata, come aveva detto: “abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»” (Lc 13,35). P. Gianni ci ha ricordato, nella messa votiva per l’Ascensione che avevamo celebrato nel nostro Carmelo, che quei cieli in cui Gesù è salito sono anche il profondo dei nostri cuori, citando quanto la santa madre Teresa scriveva proprio circa il Padre Nostro nel Cammino di Perfezione.

Mentre il nostro cammino prosegue costeggiando l’immenso puzzle di lapidi marmoree del cimitero ebraico che è sulle pendici del Monte degli Ulivi - per loro avverrà qui il Giudizio - giù giù verso la valle del Cedron, dove ci aspetta il Gethsemani, presso il quale è la Basilica dell’Agonia retta dalla Custodia della Terra Santa. Bellissima: qui il Barluzzi ha avuto l’intuizione geniale di saper edificare, sui resti della basilica bizantina, un vasto ambiente dalla luce soffusa, violacea, in cui sembra davvero di rivivere l’oscurità, pur confortata dagli angeli, dell’angosciosa ora di Cristo: attestata persino dall’autentica roccia, presso l’altare, presso la quale Gesù avrebbe pregato il Padre. Siamo lì in silenzio e in preghiera qualche tempo, ma per capire cosa Lui visse in quei momenti non basterebbero neanche secoli, i secoli che hanno i giganti tortuosi ulivi dell’Orto, e che potrebbero essere gli stessi del tempo di Gesù, come ci rassicura P. Paco.

Monte Sion

Passato il Cedron, che al giorno d’oggi è secco, risaliamo verso il Monte Sion per la Via dolorosa, madre di tutte le viae crucis, e raggiungiamo il luogo del Cenacolo, di cui hanno preso possesso le autorità israeliane in quanto vi collocano il luogo dove sarebbe il sepolcro di Davide: lo ricorda una statua gigante del re cantore, davanti all’ingresso, ai cui piedi, quel giorno, è seduta una giovanissima ragazza a suonare la cetra per i turisti. Nell’edificio del Cenacolo – in cui i cristiani non possono celebrare, se non in rarissime occasioni – requisito dalle autorità israeliane, visitiamo il memoriale della tomba di Davide, di fronte al quale molti ebrei pregano con le Scritture (e lo fanno seduti in appositi banchi con tanto di alloggiamenti per i bicchieri di caffè o altre bevande!); e il salone di epoca crociata identificato con “la sala al piano superiore” (Mc 14,15; Lc 22,12) dell’Ultima Cena. Purtroppo un gruppo di bizzarri cristiani carismatici, coi loro rumorosi gorgheggi, ci impedisce di raccoglierci adeguatamente nel posto, per cui lo lasciamo subito per recarci alla Basilica della Dormizione di Maria (che è il nome dato nelle liturgie orientali per il mistero dell’Assunzione) e, a un tiro di schioppo, alla Chiesa di S. Pietro in Gallicantu, costruita sulle rovine della casa di Caifa: là dove Pietro rinnegò per tre volte il suo Maestro. L’interno della Chiesa è coloratissimo, quasi gioiosamente naïf, benché piena di raffigurazioni di santi penitenti, dal buon ladrone (che si chiama S. Disma, ed è presente anche nel martirologio romano al 25/3!) alla Maddalena a S. Dositeo. Come a sottolineare la soavità, la “felicità” della colpa di chi, con Pietro e Paolo e Agostino e mille altri, comprende che è proprio là dove siamo caduti e pentiti che può straripare la Grazia. A questo proposito mi piace ricordare come il rapporto più impietoso del proprio tradimento lo diede lo stesso Pietro, senza nascondere nulla, per bocca del suo “segretario” l’evangelista Marco: “egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest'uomo di cui parlate” (Mc 14,71): perché capì bene che senza l’umiltà scavata in lui da quei tre rinnegamenti, forse non sarebbe mai stato pronto per ricevere la triplice consegna d’amore del Risorto, sulle rive di Gennesaret (Gv 21,15-17).

Proseguiamo attraverso il quartiere ebraico, dove famiglie di ebrei molto praticanti (tube e treccioline per gli uomini, abiti casti da collegiali per le donne) si svagano felici per lo Shabbat: anzi la Shabbat si dovrebbe dire, perché è femminile, così femminile che l’arrivo del settimo giorno viene accolto come una sposa, con danze nelle piazze e col canto dello Shir ha-shirim, il Cantico dei cantici. Quanti cristiani invece accolgono con tiepidezza e indifferenza l’arrivo della Domenica! Su questo forse abbiamo da imparare. Passiamo poi davanti al Muro del Pianto – o Occidentale – dove folle di ebrei pregano, piangono, chiacchierano, ballano di fronte a questo muro che per loro non è solo ciò che è rimasto del Tempio, ma il luogo dove fu creato l’universo, “la Pietra della Fondazione”, là dove Adamo venne alla luce, là dove la Divina Presenza non verrà mai meno. “Timido avanzo di un paradiso in frantumi”...questo invece è il verso che viene in mente a me - dalla poesia Rabbia di Pasolini - e prego anch’io di fronte a questo muro d’Occidente. 

Santo Sepolcro

Procediamo, infine, verso la Basilica del Santo Sepolcro – o dell’Anastasis, per gli ortodossi. Già dal nome si riflette la complementarietà delle diverse tradizioni cristiane, che in questo luogo convivono in un delicatissimo equilibrio di spazi e liturgie riservati alla chiesa cattolica, alla chiesa apostolica armena, alle chiese ortodosse greca, copta e siriaca. In questo grandioso complesso architettonico e pluristratificato di secoli e secoli di distruzioni e ricostruzioni, ognuna di queste chiese si è ritagliata i propri spazi e tempi celebrativi, tutti ben separati - e guai a sconfinare - ma tutti di fronte all’unico mistero pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo. Può creare scandalo questa divisione in un luogo così importante per la cristianità: e, se questa cristianità è ancora così frammentata, forse è bene che questo scandalo sia ben evidente, a nostra umiliazione, per toglierci ogni dubbio sulla necessità di conversione per tutti noi, affinché siamo “una cosa sola” come Gesù ha detto – e non tre volte come a Pietro, ma ben quattro (Gv 17,11-23).

Alla Morte di Cristo è dedicato l’altare della Crocifissione, cui si deve salire per una scala, perché è esattamente il Golgota che si sta salendo. Lì, sotto l’altare tenuto dalla chiesa ortodossa greca, c’è un buco dove si può introdurre la mano e toccare la roccia dove fu infissa la croce. Qui Michele assiste a una scena pietosa di una povera donna filippina, inginocchiata a terra in venerazione, scacciata col piede da un pope russo perché stava indugiando troppo davanti al buco della croce. Questo è avvenuto proprio sotto l’altare dello Stabat mater, accanto a quello della Crocifissione.

Alla Risurrezione è invece dedicata una maestosa edicola, sempre gestita dagli ortodossi, in cui si entra dopo una lunga fila, per venerare il luogo dove la tradizione ha collocato il sepolcro di Gesù. E’ il centro, il fulcro della Basilica, sopra il quale è la grande cupola che la identifica. Ma è anche il centro della cristianità, così come lo è il muro per Israele? Il nostro sancta sanctorum? No. Certo che no. “Non è qui” (Mt 28,6)…”non è qui” (Mc 16,6)…”non è qui” (Lc 24,6) ripetono i tre evangelisti: questo è soltanto il luogo dove l’avevano deposto. Lui è Risorto! Questo sepolcro di roccia forse è sì, come per gli ebrei, la nostra “Pietra della Fondazione”: ma non del vecchio Adamo, bensì del nuovo, il Risorto: il nuovo Tempio, che è vivo e vegeto, e di cui noi tutti siamo pietre viventi. Lo ritrovo, con gioia grande, al nostro ritorno nell’ostello, nella modestissima cappellina dei francescani, in un tabernacolo sgangherato che mi ricorda l’anima mia: personalmente lì a dirci di andare ad annunciare la Sua Presenza e la Sua Pace, non solo qui o là, ma in tutto l’universo. 

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