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di P. Antonio Maria Sicari ocd

Laura Vicuña

UNA FIGLIA TUTTA MISERICORDIOSA

C’è una particolarissima «misericordia» che solo «i piccoli santi» possono esercitare verso gli adulti: la misericordia verso i propri stessi genitori! La piccola Laura Vicuña (1891-1904)1 – santa a dodici anni – ne è una cara dimostrazione.

Era nata a Santjago del Cile, ma la famiglia, politicamente perseguitata, era stata costretta a fuggire ai confini con l’Argentina. Alla morte prematura del papà, la mamma restò priva di ogni appoggio, in una terra ostile, e finì per affidarsi a un ricco proprietario terriero, don Manuel Mora, noto per essere violento e attaccabrighe, amante del gioco, fiero di sfoggiare davanti agli amici cavalli e donne. Lo chiamavano “el gaucho malo” (“il gaucho cattivo”) che trattava mandriani e donne come suoi schiavi. Aveva cacciato di casa l’ultima amante, dopo averla marchiata a fuoco, col ferro rovente che usava per le bestie: “Così tutti sapranno che sei mia!”, le aveva urlato dietro. E s’era incapricciato di Donna Mercedes, ancora giovanile e certo più raffinata delle donne che era solito trattare.

Le offrì, dunque, ospitalità nella sua estancia e la sventurata accettò, in parte per garantire alloggio e educazione alle bambine, in parte perché soggiogata dal fascino perverso dell’avventuriero. S’intesero per mettere le due bambine, ancora troppo piccole, nel collegio delle salesiane e Don Manuel provvide volentieri a pagare i trenta pesos annuali – una cifra che non lo preoccupava affatto, dato che spesso la lasciava anche sui tavoli da gioco – pur di tenersi la donna.

In collegio Laura cresceva buona e studiosa, mostrando d’avere «un carattere forte e dolce»: sapeva tacere quand’era necessario, sapeva obbedire volentieri, essere disponibile e generosa con le compagne, facile al perdono.

Particolarmente dolorosa fu, però, la sua crescita interiore che la portò a comprendere la situazione della sua povera mamma. Un giorno, in cui le suore parlavano alle bambine della bellezza del matrimonio cristiano, a Laura si aprirono gli occhi della mente e del cuore: capì la rovina in cui la mamma era precipitata (perdendo se stessa nel tentativo di assicurare il benessere terreno alle sue figlie), e il dolore fu tanto che la bambina svenne in classe. Di colpo aveva compreso da dove venivano i soldi che la mantenevano, di chi erano i numerosi regali che la mamma portava (soprattutto profumi e oggetti da toilette che Laura sempre distribuiva alle compagne) e l’eleganza che la madre sfoggiava quando giungeva al collegio in mantiglia di seta.

Alle prime vacanze estive (che in Argentina cominciavano il primo gennaio), Laura dovette tornare alla fattoria e la comprensione divenne ancor più tormentosa: sentì l’estraneità di quella grande e ricca dimora che le faceva paura; capì perché lì la preghiera non fosse ben vista (e la mamma raccomandava alle bambine di non farsi vedere dal Mora a pregare); capì che cosa intendeva Don Manuel quando gridava che “non voleva santerelline in casa sua!”; capì perché anche la mamma non voleva più pregare con le sue bambine, quasi avesse vergogna d’esser divenuta l’amante di un avventuriero.

Quando Laura poté finalmente tornare «al suo paradiso» (il povero collegino), le suore si accorsero che la piccola aveva dentro una pena che nulla e nessuno riusciva più a guarire. Ma aveva anche un obiettivo da raggiungere, verso il quale convogliava tutta la sua infantile speranza. Ed era una speranza così «intensa», che le suore le concessero di anticipare il giorno della prima comunione, anche se aveva soltanto dieci anni. Racconteranno poi: «Quando la bambina seppe la bella notizia che aveva tanto desiderato, un’ombra le oscurò il volto e pianse: “Piangi, Laura? – domandò affettuosamente la Direttrice – Non sei contenta?”. “Oh, sì, son contenta – balbettò la fanciulla asciugandosi i lacrimoni che le solcavano le guance – ma penso alla mamma. Povera mamma!”».

Famiglia VicunaS’era accorta da tempo che Donna Mercedes non si accostava più ai sacramenti e prevedeva l’ulteriore lacerazione che si sarebbe verificata quel grande giorno, quando ella non avrebbe potuto comunicarsi assieme alla sua bambina! Perciò la piccola incontrò Gesù per la prima volta (mentre la mamma se ne stava in disparte, soffrendo a capo chino) con una strana intensità negli occhi e nel cuore. Da quel giorno, da semplice alunna buona e docile (cioè “educabile”), Laura divenne una bambina in ricerca della santità. Sembrava intuire che stava andando incontro alle prove più decisive.

Sul finire del 1901 vennero «le terribili vacanze» che, secondo l’uso, ella doveva trascorrere in famiglia. La situazione di Donna Mercedes si era fatta ancora più penosa: non solo Don Manuel non aveva nessuna intenzione di sposarla, e spesso la maltrattava per ricordarle d’essere soltanto una serva, ma già qualcuno diceva che egli pagava la retta del collegio alle figlie di lei, solo per prepararsi una nuova nuova e più giovane amante.

Laura era cresciuta e s’era fatta bella, anche se non aveva ancora compiuto gli undici anni, e il padrone aveva fretta. Cominciò a cercare ogni pretesto per star solo con la ragazza, e quando giunse il tempo della grande festa (in occasione della tosatura del gregge e della marchiatura a fuoco delle nuove bestie), Don Manuel pretese di ballare con Laura, contando sul candore della fanciulla e sulle proprie doti di seduttore. Ricevette un rifiuto, che si ripeté più volte nella serata. Irritato, il Mora pretese che Donna Mercedes costringesse la figlia ad acconsentire. Non ottenendo nulla, ordinò che legassero la madre al palo dove di solito attaccava la sua cavalla e la frustò. Per Laura fu uno schianto al cuore vedere fino a che punto fosse schiava la sua mamma.

Poi si sentì anche lei afferrare e gettare violentemente fuori casa, nel freddo gelido della notte andina. E passò così la notte, rifugiandosi nel casotto del cane, con l’anima piena d’orrore. Tornata in collegio (da «povera», perché il padrone ora rifiutava di pagare la retta), Laura si decise a «donare» letteralmente la vita, con quella logica così stringente che soltanto i bambini a volte posseggono, tanto che solo Dio può capirla.

Accadde nell’aprile 1902, un paio di mesi dopo la “terribile notte” che abbiamo raccontato. In Chiesa il prete leggeva la parabola del Buon Pastore e Laura aveva ascoltato con attenzione le parole di Gesù: «Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle!». Non pensò certo di essere lei il pastore misericordioso, o che la madre fosse la sua pecorella perduta, ma la sua conclusione logica fu ugualmente inesorabile: toccava a lei dare la vita per la mamma.

Corse dal confessore a chiedere il permesso di offrire per lei al Sacro Cuore la sua vita: ottenutolo, si gettò ai piedi del tabernacolo e fece la sua offerta. Continuò poi a vivere in pace, ma attenta ad offrire a Gesù e a Maria tutta la tenerezza di cui era capace: tanta amorevole attenzione per le collegiali più piccole (che assisteva per mantenersi); tanta obbedienza alle maestre e tanta umiltà con tutti.

Che la ragazzina vivesse interiormente una vera vita mistica lo rivelerà poi la direttrice della scuola che, nei processi canonici, riferirà queste «ingenue espressioni» di Laura: «Mi pare che Dio stesso mi conservi il ricordo della sua Divina Presenza, perché qualunque cosa faccia e dovunque mi trovi, sento che egli mi segue come un buon padre, mi aiuta e mi consola». E non sembra certo l’espressione di una bambina di dieci anni questa riferita dal suo confessore: «Per me pregare o lavorare è la stessa cosa; è lo stesso lavorare o giocare, pregare o dormire. Facendo quello che mi comandano faccio quello che Dio vuole che io faccia, ed è questo che io voglio fare; questa è la mia migliore preghiera».

Il 24 maggio 1903, festa dell’incoronazione di Maria Ausiliatrice, le bambine furono coinvolte nella rappresentazione di un bel quadro plastico e Laura, che doveva leggere un suo componimento, – cosa che commosse tutti gli astanti – fu collocata vicinissima alla statua della Vergine. La mamma assisteva in platea alla sacra rappresentazione. Discendendo dal palcoscenico, la fanciulla confidò alla sua maestra: «Mentre avevo la testa appoggiata alla mano della mia Madre celeste, ho rinnovato in maniera ancora più fervente l’offerta della mia vita. L’ho fatto guardando la mia povera mamma ch’era di fronte a me. Sarò esaudita, vedrà, il cuore me lo dice».

Il 16 luglio 1903 – in un inverno particolarmente freddo e piovoso – tutto il collegio fu sconvolto da una terribile inondazione e le ragazze dovettero essere portate in salvo su un barcone di fortuna. Laura, che già da tempo sentiva declinare la sua salute, uscì da quella triste avventura con un dolore al petto che si faceva sempre più insistente. Peggiorava inesorabilmente, ma stupiva tutti per la sua serenità. A chi le faceva domande, invariabilmente rispondeva: «Sto un po’ meglio, grazie!» ma la sua giaculatoria preferita era sempre la stessa: «Vergine del Carmelo, portami in cielo!». Sembrava che attendesse il compiersi di una promessa.

Dato il preoccupante stato di salute, dovettero riportarla alla fattoria, dove Don Manuel Mora l’accolse freddamente, con qualche ironia. Dopo qualche mese, Laura era tanto peggiorata che Donna Mercedes, per allontanare la ragazza dall’odiosa fattoria, si decise ad affittare una poverissima abitazione di due locali, fatta di paglia e fango, a pochissima distanza dall’amato collegio. Così Laura poté riprendere una sporadica frequenza scolastica, quanto bastava per concludere l’anno e per riannodare le amicizie più care.

Il Mora lasciò fare. Ma la bufera scoppiò nel gennaio 1904 (con l’inizio, cioè, delle vacanze estive). Allora si presentò furente nella misera casupola, per trascinare via «le sue donne», pretendendo intanto di passare lì la notte. Febbricitante, Laura si alzò dal suo povero letto, tutta infreddolita nella sua camiciola da notte: “Se lui resta, io vado nel mio collegio”, disse intrepida. E s’incamminò faticosamente. Si vide allora il superbo signorotto scagliarsi sulla povera fanciulla inerme, trascinarla per i capelli e coprirla di insulti e di colpi violenti. Solo l’intervento della gente del paese riuscì a strappargliela dalle mani. Per Laura fu il colpo di grazia, e tutti intuirono che era ormai questione di giorni.

Il 22 gennaio ricevette l’Estrema Unzione. Poi chiese di parlare in segreto per l’ultima volta col suo confessore: aveva un permesso speciale da chiedergli. E fu alla presenza del sacerdote che la piccola si decise a svelare alla madre il suo doloroso segreto: “Mamma, – le disse – io muoio. L’ho chiesto io stessa a Gesù… Sono quasi due anni che gli ho offerto la mia vita per te, per la tua conversione, perché tu ritorni a Lui. Non mi darai la gioia di vederti pentita, prima di morire?”.

Questa intanto s’era inginocchiata piangendo accanto al letto della sua bambina. La rivelazione l’aveva ferita fino in fondo all’anima, anche se aveva indovinato già da tempo. Ebbe solo la forza di dirle: “Ti giuro che farò quello che mi chiedi… Sono pentita, e Dio è testimone della mia promessa”. La manterrà, infatti, resistendo per anni a tutte le pressioni e le persecuzioni del Mora e ricostruendosi col tempo un’esistenza decorosa.

Al suono dell’Angelus della sera del 22 gennaio 1904, Laura, consapevole d’aver compiuto la sua missione, dopo aver baciato e ribaciato il suo crocifisso, spirò mentre ancora diceva: “Grazie Gesù, grazie Maria! Ora muoio contenta”. Accorsero le compagne. Accorse la gente del paese. E tutti si dicevano: “È morta la santina!”. Al funerale, videro che la mamma si accostava, pentita e tremante, ai sacramenti e compresero. E chi conosceva tutte le sventure che la piccola aveva passato, invocava “Laura vergine e martire”, mentre la mamma – ricordando ciò che la figlia aveva dovuto subire – assentiva tra le lacrime: “Sì, vergine. E martire per me”.

Note:

Per tutta la documentazione, cfr. Miela Fagiolo D’Attilia, Laurita delle Ande, ed. Paoline, Milano 2004.