di P. Angelo Lanfranchi ocd

lanfranchi scalaHaifa, 31 dicembre 2014.

Giovedì 11 dicembre.

La "Salita": uno tra i simboli più potenti nella storia di molte civiltà e in particolare della mistica cristiana. Le radici bibliche sono profonde: Abramo salì sul Moria per sacrificare Isacco, su un'altra Montagna Dio consegnò la Legge a Mosè ed Elia udì l'ordine: "Esci e fermati sul monte, alla presenza del Signore" (1 Re 19,11). Israele conosce da sempre i Salmi "delle Ascensioni" (o graduali – Sal 120-134), da cantare salendo verso Sion – "il monte dove Dio ha posto la sua dimora" – nel grande pellegrinaggio annuale. E ancora: Gesù, come un nuovo Mosè, dapprima sale sul Monte delle Beatitudini e raduna attorno a sé il popolo (Mt 5,1), poi prende con sé i tre Apostoli e sulla vetta del Tabor mostra loro la sua Gloria. Il Monte è il luogo privilegiato dell'incontro con Dio, della rivelazione, della chiamata e delle grandi missioni. Per noi il Monte è soprattutto il Carmelo, con tutto ciò che esso evoca a livello storico e spirituale. È il luogo della nostra "storia d'amore" col Dio vivente. Ci basta evocare qui la Salita del Monte Carmelo di S. Giovanni della Croce, che perfino fratel Alberto Chmielowski – il "San Francesco polacco" amico di S. Raffaele Kalinowski – scelse come libro di formazione per i suoi frati, poveri con i poveri nei dormitori pubblici di Cracovia.

Riflessi del deserto

Siamo appena rientrati da una lunga escursione al Monte Sinai. Un viaggio "lungo" non solo da un punto di vista geografico. 450 km in pullman da Haifa, attraversando Galilea, Samaria e Giudea, passando per Beer Sheva (la "fonte del giuramento" di abramitica memoria) e scendendo fino a Eilat. Dopo la frontiera egiziana ci sono altri 220 km da percorrere nel deserto del Sinai. Abbiamo attraversato la Samaria e la valle di Saron, abbondantemente irrigata e costellata di villaggi ebrei e arabi. Poco a sud di Gerusalemme il paesaggio cambia rapidamente e si entra nell'impressionante deserto del Negev. Un'immensa distesa di sabbia e rocce, ma segnata fortemente dalla presenza umana (kibbutz, installazioni industriali e militari) fin da quando Israele si rese conto che il deserto costituisce il 60% del suo territorio ed è una risorsa preziosa da sfruttare. Qui si sta consumando in silenzio il dramma delle tribù beduine: per ridurre lo spazio vitale "occupato" dai nomadi, lo Stato li ha concentrati nella zona di Rahat, presso Beer Sheva. Questa gente, molto attaccata alla propria terra, si è ritrovata seppellita in una zona industriale fortemente inquinata. I tentativi di integrazione tra diversi clan e tribù sono falliti e nemmeno la costruzione di numerose moschee ha risolto qualcosa. Il tasso di alcoolismo è al 40% e non mancano episodi di confronto violento con la polizia, soprattutto a Ne'ot Hovav. "È il problema del deserto..." ci dicono.

Naturalmente vi sono anche parti davvero desertiche come il Makhtesh Ramon, una depressione spettacolare che precede il deserto di Paran. In questa regione si trova il famoso "re dei wadi", il Wadi Faran: un'arida vallata larga due chilometri che si restringe fino a un'apertura di soli 15 metri. In occasione di temporali invernali violenti, la valle diventa improvvisamente un enorme torrente e la colonna d'acqua che preme per passare attraverso la strettoia può salire fino a 50 metri di altezza! In pochi minuti, 80.000 metri cubi di acqua si riversano nella grande pianura, spazzando via tutto con forza immane.

Vale la pena di spendere una parola per le interminabili attese alla frontiera di Taba fra Israele ed Egitto: guardie armate ad ogni angolo e ripetuti controlli ti fanno percepire fisicamente la tensione di una calma precaria e dominata dalla paura e dal sospetto: dietro ogni volto si può nascondere un nemico da cui difendersi. Tutti sono gentili, ma ti fanno capire che qui i padroni sono loro e che non si scherza. I funzionari israeliani sono pedanti e meticolosi, gli egiziani lo sembrano molto meno. Ma non per questo sono più accondiscendenti: cambia il metodo, non la sostanza. Anche i numerosi posti di blocco nel Sinai fan parte di questo sistema capillare di filtraggio dei movimenti. Dietro l'apparente svogliatezza tipicamente orientale, senti che quel nugolo di strani personaggi sfaccendati che attorniano poliziotti e soldati, tra filo spinato e bidoni di sbarramento, immondizie di ogni tipo, mitra e sedie sgangherate, ti stanno guardando: uno sguardo discreto ma penetrante, cui non sfugge nulla. Purtroppo, questo spiegamento di forze è giustificato da scaramucce sanguinose anche recenti tra unità dell'esercito e gruppi radicali, che oggi stanno ponendo grossi problemi all'Egitto, soprattutto nella penisola sinaitica.

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Ai piedi della Santa Montagna

Un lungo viaggio, dicevamo, che va ad unirsi a quello dei milioni di pellegrini che si sono messi in cammino per scalare il Monte sul quale Dio ha parlato a Mosè e gli ha affidato le "Dieci Parole". Non entriamo nelle discussioni erudite sull'identificazione del "vero" Sinai, che da tanto tempo ricercano conferme archeologiche ai dati della tradizione religiosa. Tra le ipotesi moderne più discusse vi è quella dell'archeologo italiano Emmanuel Anati (lo stesso che si è occupato delle incisioni rupestri della Valle Camonica), che una trentina di anni fa pubblicò i risultati impressionanti delle sue ricerche sul sito antichissimo di Har Karkom nel deserto del Negev israeliano, molto più a nord del Djebel Musa tradizionale, ai piedi del quale è stato edificato il Monastero di Santa Caterina.

Il Monastero e il Sinai sono considerati "Terra Santa" e come tali sono divenuti meta di pellegrinaggio fin dall'antichità, allo stesso titolo di Gerusalemme. Cosa straordinaria e unica, questo luogo sacro è abitato ininterrottamente da monaci fin dal III-IV secolo (la fondazione della primitiva cappella è attribuita all'imperatrice Elena) ed esiste persino una lettera autografa di Maometto che ordina ai suoi seguaci di proteggere i monaci di Santa Caterina. Ecco perché questo luogo di preghiera cristiano ha potuto fiorire sino ad oggi nel crogiuolo dell'Islam, stringendo ottime relazioni soprattutto con la tribù beduina Jabaleya (montanari) una delle sette tribù della regione. Da quando il monastero nacque, questo popolo ha sempre lavorato a stretto contatto con i monaci del Sinai, pur mantenendo la propria fede musulmana. A suo uso sono state erette anche due piccole moschee: una all'interno del Monastero e l'altra sulla cima del Monte, accanto alla cappella bizantina dedicata alla Trinità.

Molto tempo prima di questi eventi, il Profeta Elia percorse esattamente il nostro stesso itinerario quando – dopo la grande "vittoria" sul Carmelo (cfr. 1 Re 18) – si diresse amareggiato verso la Montagna Santa per incontrare il Dio dell'Alleanza, ora tradita e quasi dimenticata da un popolo confuso e idolatra. Nel silenzio del deserto Dio lo attendeva per porgli una domanda: "Cosa sei venuto a fare qui?". Il Profeta rispose con quella frase così incisiva che è diventata il motto del nostro Ordine: "Zelo zelatus sum pro Domino Deo exercituum": "Ardo di amore geloso per il Signore, Dio delle schiere". Come negli altri luoghi della Terra Santa, è impressionante pensare che questa parola "sia risuonata proprio qui!".

Verso l'Alto!

Nella luce calda del primo pomeriggio, abbiamo dunque lasciato alle nostre spalle le mura giustinianee di Santa Caterina. Ci siamo incamminati portandoci dentro i volti incandescenti di Mosè ed Elia, i grandi amici di Dio, e salendo con speranza verso il Monte per ascoltare Dio, perché ci dica chi è Lui e chi siamo noi, che cosa si aspetta da noi. Fin dai primi passi, volgendo lo sguardo a queste maestose e tormentate pareti di roccia, testimonianza di sconvolgimenti geologici inimmaginabili, mi son ricordato l'aforisma di Madeleine Delbrêl, che qui ha acquistato per me un sapore tutto nuovo: "Per colui che cerca il Volto di Dio, anche una rampa di scale è come il Sinai". Ovvero: è una grazia immensa trovarsi qui, ma in fondo Dio ci aspetta ad ogni angolo della vita, ad ogni piccola "ascesa" che può essere incontro con Lui se davvero lo stiamo cercando.

Poi, man mano che il sentiero s'inerpicava e le catene montuose circostanti si delineavano in tutta la loro silenziosa grandezza, mi sono tornate alla memoria le frasi pronunciate da Giovanni Paolo II a Bologna il 27 settembre1997. Parole che allora mi avevano colpito e che qui hanno trovato lo spazio giusto per risuonare di nuovo: "Carissimi giovani, mi avete chiesto: quante strade deve percorrere un uomo per potersi riconoscere uomo? Vi rispondo: una! Una sola è la strada dell'uomo, e questa è Cristo, che ha detto "Io sono la via" (Gv 14, 6). Egli è la strada della verità, la via della vita. Vi dico perciò: ai crocicchi in cui si intersecano i tanti sentieri delle vostre giornate, interrogatevi sul valore di verità di ogni vostra scelta. Può succedere, talora, che la decisione sia difficile e dura, e che la tentazione del cedimento si faccia insistente. Capitò già ai discepoli di Gesù, perché il mondo è pieno di strade comode e invitanti, strade in discesa che s'immergono nell'ombra della valle, dove l'orizzonte si fa sempre più ristretto e soffocante. Gesù vi propone una strada in salita, che è fatica percorrere, ma che consente all'occhio del cuore di spaziare su orizzonti sempre più vasti. A voi la scelta: lasciarvi scivolare in basso verso le valli di un piatto conformismo o affrontare la fatica dell'ascesa verso le vette su cui si respira l'aria pura della verità, della bontà, dell'amore".

Cosa aggiungere ancora? Sì, la lezione del deserto che ci è stata ribadita più volte: nessuno deve camminare da solo, nessuno deve restare indietro. Bisogna aspettarsi l'un l'altro, non lasciare il sentiero e obbedire alla guida. Altrimenti si muore. Se questo valeva per l'ascensione in pieno giorno, vale ancor di più durante la discesa notturna. Nel deserto il sole cala rapidamente. Ti accorgi che non puoi distrarti scioccamente vantandoti di essere arrivato in cima; devi umilmente chinarti su quel breve tratto di sentiero che la torcia elettrica rischiara, facendo attenzione ad ogni passo – fino all'ultimo – a dove metti i piedi. Non sai esattamente dove ti trovi, hai perso il conto dei tornanti e i punti di riferimento che ti rendevano in qualche modo "indipendente". È il momento di prendersi cura gli uni degli altri, unendo la tua piccola luce a quella dei compagni per rendere il cammino più facile e sicuro. Quel che ti rimane, allora, è seguire le orme dell'antico eremita Laurentius: "Mi fu detto: tutto deve essere accolto senza parole e trattenuto nel silenzio; allora compresi che tutta la mia esistenza sarebbe trascorsa nel rendermi conto di ciò che mi era accaduto. E il tuo ricordo mi riempie di silenzio".

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«La preghiera è per me sempre una preghiera "memoriosa", piena di memoria, di ricordi, anche memoria della mia storia o di quello che il Signore ha fatto nella sua Chiesa o in una parrocchia particolare. Per me è la memoria di cui sant'Ignazio parla nella Prima Settimana degli Esercizi nell'incontro misericordioso con Cristo Crocifisso. E mi chiedo: "Che cosa ho fatto per Cristo? Che cosa faccio per Cristo? Che cosa devo fare per Cristo?". È la memoria di cui Ignazio parla anche nella Contemplatio ad amorem, quando chiede di richiamare alla memoria i benefici ricevuti. Ma soprattutto io so anche che il Signore ha memoria di me. Io posso dimenticarmi di Lui, ma io so che Lui mai, mai si dimentica di me. È la memoria della grazia, la memoria di cui si parla nel Deuteronomio, la memoria delle opere di Dio che sono alla base dell'alleanza tra Dio e il suo popolo. È questa memoria che mi fa figlio e che mi fa essere anche padre» (Papa Francesco).