di P. Ermanno Barucco ocd

web3 communion hand eucharist mass shutterstock 1101436604

Nella storia della Chiesa si sono avvicendate due modalità principali per la distribuzione della comunione eucaristica ai fedeli: quella che prevede la consegna della particola da parte del sacerdote direttamente in bocca al fedele (o anche detta “sulla lingua”) e quella data sulle mani del fedele, in modo che poi questi possa portarla alla bocca.

Che queste due modalità siano ambedue ammesse oggi – la forma canonica attuale stabilisce la prima come universale e ordinaria ma poi autorizza anche la seconda in determinate Chiese locali – deriva dal fatto che entrambe sono state praticate sin dall’antichità e poi nel corso dei secoli (anche se non è facile stabilire storicamente quale sia la più antica o la più praticata nei diversi luoghi e tempi in una storia di quasi duemila anni). La comunione sulla mano è stata nuovamente valorizzata dopo il Concilio Vaticano II, su richiesta di alcune Conferenze episcopali, per altro con un processo di formazione e catechesi previsto per preparare i fedeli anche a questa modalità di ricezione dell’eucarestia, e in modo tale che tutto avvenisse nel massimo rispetto del sacramento.

Non giudicare l’altro: la carità vicendevole

Se entrambe le modalità di ricezione della comunione eucaristica sono state ammesse dalla Chiesa, seppur con disposizioni diverse nei secoli, vanno entrambe rispettate da tutti i fedeli (pastori compresi, in quanto sono anch’essi dei fedeli), anche se per sensibilità personale ciascuno potrà preferire una modalità piuttosto che un’altra. Tuttavia, all’interno di questa possibile alternativa, non si può far diventare la propria sensibilità personale un dogma per tutti e poi, magari, giudicare gli altri che si regolano diversamente. Ad esempio, considerare la modalità della comunione in bocca come retrograda o, viceversa, considerare la comunione sulla mano come irriverente verso il mistero eucaristico (se non addirittura un sacrilegio), non sono evidentemente atteggiamenti rispettosi né della Chiesa – che le autorizza entrambe – né di quei “fratelli” che preferiscono l’altra modalità. Ogni tanto dovremmo chiederci, anche su questi temi: che giudizio sto dando dei miei fratelli nella fede? Gesù, d’altra parte, ci ha chiesto di «non giudicare» (cf. Mt 7,1-5), di non insultare il fratello e, nel caso, di riconciliarci quanto prima con lui (cf. Mt 5,21-26). Ora, se questo atteggiamento fraterno di fondo vale sempre, ancora di più dovrebbe valere in questo tempo di grande turbamento dovuto alla pandemia del Covid-19; una situazione che per altro ha determinato la decisione temporanea della Chiesa italiana di autorizzare sacerdoti e fedeli alla sola modalità della comunione sulla mano, in quanto meno rischiosa in ordine alla diffusione del virus. Ma, al di là dell’indicazione prescrittiva, senza una “carità vicendevole” (cf. Rm 13,8-9) non riusciremo a vivere e comprendere tali questioni con una vera attenzione reciproca e, in particolare, al fratello “più debole” in coscienza (cf. 1 Cor 8-10; Rm 14-15).

Discernimento e carità pastorale del ministro dinanzi alla coscienza del fedele

Credo dunque che nel trattare questi temi – oltre che alla necessaria precisazione degli aspetti teologico-liturgici – si debba prevedere un riferimento adeguato di tipo teologico-morale alla coscienza dei fedeli. Un passaggio che in realtà è sempre necessario, ma che – come già accennato – diventa ancora più stringente in circostanze complesse e difficili come quelle vissute in questi ultimi mesi. Queste osservazioni possono infatti riguardare diversi aspetti: la fatica del ministro che, pur consapevole di alcune difficoltà dei fedeli, si vede “costretto” a distribuire l’eucaristia secondo un’unica modalità, cioè sulle mani (senza dimenticare, per altro, che i sacerdoti, su indicazione del protocollo, per alcuni mesi hanno dovuto indossare guanti in lattice per farlo, guanti non previsti da alcuna norma liturgica); la fatica di quei fedeli che, abituati da sempre a ricevere la comunione sulla lingua e ai quali ora è chiesto di riceverla necessariamente sulle mani, o ricorrono per scrupolo di coscienza alla comunione spirituale oppure si sentono spinti dalla loro coscienza a utilizzare un fazzoletto benedetto per ricevere l’eucaristia sulla mano, senza un contatto diretto con quest’ultima, per poi portarla direttamente in bocca. In particolare con riguardo a quest’ultima situazione, che tutt’ora ricorre nelle nostre chiese, è possibile proporre qualche nota di riflessione.

Credo che la prima utile indicazione pastorale sia questa: il ministro, di fronte al fedele che vorrebbe ricevere l’eucaristia sul fazzoletto, nei limiti in cui questo è possibile, dovrebbe comunque riproporsi di entrare in dialogo con lui, in privato, al termine della celebrazione o in altra occasione favorevole. Nell’ascolto e nel dialogo si potrebbe spiegare, con gli argomenti appropriati e la serenità necessari, come la ricezione della comunione sulla mano non implichi alcuna mancanza di rispetto per il sacramento, né tanto meno alcun sacrilegio; come pure per ricordare, al contrario, che non c’è una norma liturgica attuale che autorizzi l’uso del fazzoletto benedetto. Ma questo primo e necessario passaggio, si lega comunque all’opportunità che il ministro si ponga realmente dinanzi alla coscienza di quel fedele, per capire le motivazioni della sua fatica e del ricorso al fazzoletto. In buona parte dei casi, infatti, la percezione di una cura pastorale da parte del ministro, offerta con una vicinanza reale e con argomenti adeguati, potrà aiutare il fedele a rivalutare la sua scelta. Ma potranno anche esserci casi diversi, nei quali la sensibilità personale e spirituale di alcuni fedeli, magari maturata nel tempo di una vita intera, sia di profondo impedimento al fatto di ricevere l’eucaristia direttamente sulle mani. E, all’interno di queste situazioni, potrebbe ulteriormente verificarsi che in determinati casi la coscienza di alcuni fedeli risulti “invincibilmente erronea” nel ritenere che, toccando l’eucaristia con le proprie mani, si manchi di rispetto al sacramento o, addirittura, si verifichi una qualche profanazione. La tradizione morale cattolica (sintetizzata nel Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1790.1793) ha affermato che in questi casi la persona deve seguire la propria coscienza, anche se invincibilmente erronea, tuttavia restando sempre disponibile a lasciarsi illuminare e formare. Nel contesto di queste riflessioni, si comprende perché la circostanza di voler usare il fazzoletto benedetto, da parte del fedele, richieda un serio atteggiamento di cura pastorale da parte del ministro e può rappresentare l’occasione per avviare un processo educativo di confronto che possa condurre alla comprensione corretta di come poter fare la comunione anche direttamente sulle mani. Non è possibile determinarne a priori la durata e i passi di questo percorso necessario per illuminare una coscienza invincibilmente erronea: ma l’importante è che questo percorso inizi ed avvenga. In questo senso, e in questi casi, il fazzoletto può essere valutato, dal fedele come dal pastore, – seguendo la prospettiva di papa Francesco nella Evangelii gaudium 44 – come «un piccolo passo, in mezzo a grandi limiti umani, [ma] gradito a Dio», nel cammino verso l’accoglienza piena della richiesta dei pastori della Chiesa di ricevere la comunione sulla mano in tempi eccezionali di pandemia.

Bisogna porre attenzione, infine, anche ad un altro aspetto: se si appurasse che questa coscienza non formata, sofferente o, nei casi appena richiamati, anche invincibilmente erronea, si è orientata nelle scelte a causa di maestri e pastori alquanto rigidi, scrupolosi oppure addirittura in posizione polemica verso la Chiesa, non sarà ovviamente opportuno “attaccare” i fedeli, ma servirà argomentare circa l’inadeguatezza di quegli insegnamenti. E, qualora fosse possibile, anche arrivare a confrontarsi direttamente con quei maestri e pastori che hanno indotto ad un errore di giudizio morale la coscienza di quei fedeli, rendendola scrupolosa o in atteggiamento polemico verso la Chiesa.

La preferenza per un approccio pedagogico positivo

Sempre in questo contesto sarà opportuno fare attenzione a non aggiungere altro “peso” morale (anche questa attenzione di carità pastorale è contemplata nella tradizione morale cattolica in favore dei fedeli) a questo tipo di coscienza sofferente, poco formata o anche invincibilmente erronea, preoccupandosi di sviluppare innanzitutto gli argomenti in positivo circa la liceità della ricezione dell’eucaristia sulle mani ed evitando di ricondurre l’uso del fazzoletto – almeno nel primo approccio e dopo un accurato discernimento in seguito – ai temi di un uso liturgico improprio, di possibili sanzioni, etc… Questo anche in ragione del fatto che qui non c’è comunque alcuna volontarietà di porre una mancanza di rispetto verso le specie eucaristiche (anzi c’è il desiderio di un maggior rispetto delle stesse, che vorrebbe essere espresso utilizzando il fazzoletto). È significativo, infatti, che la grande maggioranza dei vescovi, in questi mesi, non si sia pronunciata apertamente “contro” l’uso del fazzoletto benedetto usato da alcuni fedeli durante la comunione. Non perché la prassi debba essere ritenuta liturgicamente valida, ma perché – almeno così si può presupporre – c’è stata e c’è comunque una certa comprensione davanti alla fatica e al turbamento vissuto dai fedeli in questo tempo di pandemia, come pure davanti al fatto che si tratti di una prassi transitoria, sorta soltanto in rapporto a questa situazione drammatica e al conseguente obbligo (altrettanto transitorio) di ricevere la comunione soltanto sulla mano. Non ci si confronta, cioè, con un uso che sarebbe destinato a diventare abituale neanche nelle intenzioni di chi vi ricorre. In questo senso andrebbe approfondito in che maniera la questione del fazzoletto benedetto debba essere valutata con riferimento alla dottrina sulla fede e la morale cristiana.

C’è un ultimo aspetto pastorale che si può considerare. Nella misura in cui il ricorso al fazzoletto benedetto intenda esprimere un rispetto e un’adorazione sinceri per l’eucaristia, allora bisognerà segnalare al fedele che anche questa prassi può portare al rischio della dispersione di alcuni frammenti. E questa attenzione più in generale può essere essere di nuovo ricordata, con un’attenta catechesi al riguardo, anche per la comunione in bocca o sulla mano, o per altri momenti della celebrazione liturgica dell’Eucarestia: anche le dita del sacerdote che toccano il pane consacrato, spezzano l’ostia o danno la comunione sulla lingua ai fedeli possono non trattenere o raccogliere tutti i frammenti; ed è per questo che si usano patene o piattini, il corporale o altri lini inamidati nella liturgia eucaristica. L’educazione alla cura nell’assunzione di eventuali frammenti eucaristici deve riguardare di nuovo anche i ministri sacri e non solo i fedeli laici!

La carità pastorale illumina il cammino graduale dei fedeli

Tutti siamo “in cammino” nella fede in Dio e nella comprensione morale dei nostri atti. Lo siamo grazie alla legge della gradualità e accompagnati dalla carità pastorale, paziente e benigna (che a volte è tale anche con il silenzio, dice la tradizione morale cattolica). Anche la carità pastorale contribuisce ad illuminare la coscienza morale, perché possa accorgersi della verità ed accoglierla, piuttosto che continuare a ritenere giusto l’errore nella sua valutazione morale. E, quando questo accade, il primo a illuminare la coscienza è stato Dio, cioè è stata opera sua: noi siamo solo strumenti. Non si rimane strumenti nelle mani di Dio e ci si arroga la pretesa di fare da sé quando, come dice papa Francesco, «invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare» (Gaudete et exultate, 25). Uno strumento in sé non è nulla, ma nelle mani di Dio può operare cose incredibili e divine.