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di P. Giuseppe Furioni ocd

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Il Carmelo, che si considera totus marianus, tutto rivolto a Maria, mai si è ritenuto indifferente davanti al rosario e, certamente, tutti coloro che partecipano di questo carisma, consacrati e laici, tendono a recitarlo quotidianamente[1].

Per di più nella corona non trovano per nulla una concorrente dello scapolare, l’«abito della Vergine» per antonomasia e segno distintivo dell’Ordine, indossando il quale esprimono il rapporto d’alleanza con Maria da cui si sentono maternamente custoditi e teneramente invitati all’imitazione delle sue virtù. Anzi, in molti casi il rosario è il modo semplice e pratico di manifestare la gratitudine alla Vergine per la sua peculiare protezione[2]. Al punto che nel XVI secolo era addirittura sorta all’interno dell’Ordine una tradizione, parallela a quella dello scapolare, che attribuiva l’«invenzione» del rosario ad uno dei primi eremiti carmelitani vissuti in Palestina intorno al 1200. La storia rientrò subito, anche per evitare controversie con i domenicani che a loro volta ne rivendicavano la paternità, ma in ogni caso testimonia una profonda sintonia nei confronti di questa preghiera[3].

Molti carmelitani recitano il rosario, con tanti altri fedeli, perché è un’eredità di famiglia. Teresa d’Avila narra: «Cercavo la solitudine per recitare le mie preghiere che erano molte, specialmente il rosario di cui mia madre che era molto devota e procurava che lo fossimo anche noi»[4]. S. Teresa di Los Andes (1900-1920), carmelitana cilena, nel Diario che inizia a redigere a quindici anni, prima parla del nonno materno come di un santo, «dato che ogni giorno lo si vedeva scorrere la corona del suo rosario»[5], e poi annota che all’età di sette anni per influsso del fratello le sorse nell’anima una grandissima devozione alla SS.ma Vergine: «Tutti i giorni Luigi mi invitava a recitare il rosario e insieme facemmo la promessa di recitarlo tutta la vita, ciò che ho fatto finora»[6]. Per i nostri tempi, valga l’esempio del card. Ballestrero, che da religioso si chiamava «P. Anastasio del SS. Rosario». Su richiesta esplicita di papa Giovanni XXIII, se il rosario oltre che un titolo fosse anche una preghiera, il padre rispose che lo recitava intero ogni giorno[7].

Anche Teresa di Gesù Bambino (1873-1897) ricorda quando pregava, quasi giocando, con la cuginetta Maria: «I due eremiti recitavano insieme il rosario, servendosi delle dita in modo da non mostrare la loro devozione al pubblico indiscreto»[8]. Intorno agli undici anni si iscrive alla confraternita del rosario; nel 1886, come «Figlia di Maria», se lo impone quotidianamente e da carmelitana ne diventa solerte propagandista[9].

Per questo sorprende quando negli ultimi giorni di vita confessa che la recita del rosario le fu assai faticosa[10]. E, preoccupata che questo sentimento fosse interpretato come disprezzo degli abituali esercizi di pietà in favore di una certa spontaneità e individualismo, spiegava: «Al contrario, amo tanto le preghiere comuni, perché Gesù ha promesso di essere presente in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo nome: allora sento che il fervore delle sorelle supplisce al mio, ma da sola (ho vergogna a confessarlo) la recita del rosario mi costa più che mettermi uno strumento di penitenza!… Mi accorgo che lo dico così male! Per quanto mi sforzi di meditarne i misteri, non riesco a fissare l’attenzione…»[11]. Probabilmente era il tono ripetitivo che mal si adattava al temperamento di Teresa, soprattutto se la recita era comune e veloce. E, infatti, qualche riga più sotto, continuava: «A volte, quando il mio spirito è in un’aridità così grande che mi è impossibile ricavarne un pensiero per unirmi al Buon Dio, recito molto lentamente un “Padre Nostro” e poi il saluto angelico: allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono la mia anima ben più che se le recitassi precipitosamente un centinaio di volte…»[12].

Chiara è la convinzione di Teresa: «Per molto tempo mi sono afflitta per questa mancanza di devozione che mi stupiva, perché amo così tanto la Madonna che mi dovrebbe essere facile fare in suo nome delle preghiere che le sono gradite. Adesso mi affliggo di meno: penso che, poiché la Regina dei Cieli è mia Madre, vede la mia buona volontà e se ne accontenta»[13]. Costante nella vita di questa religiosa è la ricerca non di particolari gratificazioni, ma semplicemente di «far piacere» a Gesù, e a Maria. E il rosario, in quanto preghiera «gradita alla Vergine», andava recitato, anche se richiedeva fatica, nella certezza che la Vergine guarda solo all’amore dei nostri gesti, non alle imperfezioni che li accompagnano[14].

Elisabetta della Trinità (1880-1906) nell’ultima lettera[15], si congeda dall’amico Carlo Hallo lasciandogli una medaglia del suo rosario, da portare come ricordo dell’affetto della monaca che l’amerà «in cielo più ancora che sulla terra».

S. Giovanni della Croce (1542-1591), che documenta come nei conventi carmelitani si tengano in grande considerazione le indulgenze che sono annesse non solo alla preghiera ma pure all’uso della corona, si preoccupa di educare i confratelli a purificarsi da quella eccessiva avidità spirituale, che considera perfezione l’eccessivo attaccamento a questa o quella corona del rosario, così come a questa o a quella immagine[16]. La sua non è iconoclastia, ma volontà di ricondurre ogni strumento all’unico fine, la contemplazione del volto del Signore Gesù: «Cerca infatti dentro di sé la vera immagine, che è Cristo crocifisso, in cui anzi è contenta che la privino di tutto e che tutto le venga meno»[17].

rosarioscapolareP. Giovanni Brenninger (1890-1946), a sua volta ammonisce: «Il rosario non è soltanto una preghiera per domandare l’aiuto di Dio e della SS.ma Vergine, ma è una scuola di vita spirituale. Infatti, dovendo, durante la recita delle preghiere vocali, meditare i misteri della vita, della Passione e Morte e della Gloria di nostro Signore e della sua SS.ma Madre, mentre diciamo il rosario abbiamo sotto gli occhi argomenti efficacissimi per essere ammaestrati e spinti nella vita spirituale»[18].

I carmelitani, dunque, con il rosario pregano Maria di introdurli nell’intimità della vita del suo Figlio Gesù. Siamo qui molto vicini alla sensibilità espressa dalla lettera apostolica di Giovanni Paolo II, Rosarium Virginis Mariae, preoccupata a sua volta di evidenziare l’indole contemplativa del rosario[19].

Interessante da questo punto di vista è il Cammino di Perfezione. S. Teresa d’Avila lo scrisse per le sue consorelle a commento del Padre nostro, ma si chiuse con il rammarico di dover rinunciare alla spiegazione dell’Ave Maria[20]. Al fondo sta l’intenzione di Teresa di avviare tutti all’orazione mentale, intesa come contemplazione del volto del Signore. E a chi la vuol disilludere – «Le donne è meglio che filino; non hanno bisogno di queste finezze; basta il Pater noster e l’Ave Maria» – ella risponde con ironia: «Sì, l’affermo anch’io, sorelle: e come basta!»[21]. È convinta, infatti che «non è poco il profitto che si ha nel far bene l’orazione vocale. Anzi, può darsi che recitando il Pater noster o qualche altra preghiera vocale, si venga elevati a contemplazione perfetta»[22]. L’orazione vocale, però, «bisogna farla in modo da ottenere che Dio ci conceda insieme l’orazione mentale senza che noi ce ne accorgiamo. Ma per questo, ripeto, bisogna farla come si deve»[23]. Teresa rifiuta l’eccessiva verbosità, ma difende le preghiere «che come cristiani dobbiamo necessariamente recitare: il Pater noster e l’Ave Maria»[24]. E spiega: «Dovete sapere, figliuole mie, che la differenza tra l’orazione mentale e la vocale non consiste solo nel tener chiusa la bocca. Se pregando vocalmente sono veramente persuasa di parlare con Dio e attendo più a Lui che alle parole che pronuncio, la mia orazione vocale si unisce alla mentale. Dovendo parlargli con l’attenzione che un tal Signore si merita, è giusto che consideriate chi è Colui con cui parlate e chi siete voi: così almeno per poter parlare con convenienza…»[25].

E questo vale anche per il rosario: «Ora, chi potrebbe dire che fate male, quando al momento di recitare le Ore o il rosario, vi domandaste con chi state per parlare, chi siete voi che parlate, per meglio conoscere come diportarvi? Vi dico, sorelle, che se metteste ogni cura per ben comprendere questi due punti, prima di cominciare la preghiera vocale avreste già dedicato molto tempo alla preghiera mentale»[26]. E insiste: l’orazione mentale «consiste nel pensare e nel comprendere quello che diciamo, a chi ci rivolgiamo e chi siamo noi per parlare a un Dio così grande. Occuparci di questi pensieri e di altri somiglianti, come, ad esempio, del poco che abbiamo fatto per Lui e dell’obbligo che ci incombe di servirlo, è orazione mentale. Orazione vocale invece è recitare il Pater noster, l’Ave Maria o qualche altra preghiera; ma se non l’accompagnate alla mentale, è come una musica stonata, tanto che alle volte non vi usciranno con ordine neppure le parole»[27].

L’invito che ogni mistero del rosario ci indirizza è quello di volgere lo sguardo al volto stesso di Gesù e di Maria, nella convinzione – espressa da S. Teresa con la formula «Guarda a colui che ti guarda» (in spagnolo: Mire que le mira)[28] – di essere guardati dal Signore stesso, prima ancora che noi volgiamo la nostra attenzione verso di lui: «Vi chiedo solo che lo guardiate. E chi vi può impedire di volgere su di lui gli occhi della vostra anima, sia pure per un istante, se non potete di più? Sappiate intanto, figliuole mie, che questo vostro Sposo non vi perde mai di vista, né sono bastate, perché lasciasse di guardarvi, le mille brutture e abominazioni che gli avete fatto soffrire. Ora, è forse gran cosa che togliendo gli occhi dagli oggetti esteriori, li fissiate alquanto su di lui? Ricordate ciò che dice alla Sposa: non aspetta che un vostro sguardo per subito mostrarvisi quale voi lo bramate. Stima tanto questo sguardo, che per averlo non lascia nulla di intentato»[29].

Ma c’è di più. Attraverso i suoi misteri lo stesso Signore si adegua ad ogni umana circostanza: «Non è forse così che deve fare una buona sposa con il suo sposo: mostrarsi triste se egli è triste, allegra se egli è allegro, anche se non ha voglia? Considerate intanto, sorelle, da quale soggezione Iddio vi ha liberate!… Si fa vostro servo, vuole che voi siate le padrone, e si accomoda in tutto alla vostra volontà. Se siete nella gioia potete contemplarlo risorto, e nel vederlo uscire dal sepolcro la vostra allegrezza abbonderà… Se invece siete afflitte o fra i travagli, potete contemplarlo mentre si reca nel giardino degli olivi. Come doveva essere triste la sua anima se Egli, che è la stessa potenza, giunse perfino a lamentarsi!… Consideratelo legato alla colonna, sommerso nello spasimo, con le carni a brandelli: e tutto per il grande amore che ci porta… Oppure consideratelo con la croce sulle spalle, quando i carnefici non gli permettono nemmeno di respirare. Egli allora vi guarderà con quei suoi occhi tanto belli, compassionevoli e pieni di lacrime; dimenticherà i suoi dolori per consolare i vostri, purché voi lo guardiate e lo preghiate di consolarvi»[30].

Quanto più questo si verifica, tanto più un carmelitano può ritrovarsi in questa dolce esclamazione raccolta dalla bocca della «piccola araba», la beata Maria di Gesù Crocifisso (1846-1878), durante un’esperienza mistica: «L’Ave Maria è come un chicco di grano, il Gloria Patri come la spiga. Quanto più devota sarà l’Ave Maria, tanto più grossa e gonfia sarà la spiga»[31].

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Note:

[1] Lo fanno sostenuti anche dalle loro leggi e consuetudines. La documentazione, per i secoli passati, in V. Hoppenbrouwers, Devotio mariana in Ordine Fratrum B. Mariae Virginis de monte Carmelo a medio saeculo XVI usque ad finem saeculi XIX, Institutum Carmelitanum, Romae 1960, pp. 311-315; per i nostri tempi, in E. Boaga, Con Maria sulle vie di Dio. Antologia della marianità carmelitana, Ed. Carmelitane, Roma 2000, pp. 332-365. Riportiamo il suggerimento che P. Giovanni di Gesù Maria, uno dei primi educatori del Carmelo riformato, dà nella sua Istruzione dei novizi (III, 4): «Benché la vera devozione consista nell’imitazione più che nella preghiera, tuttavia reciteranno ogni giorno le Litanie, il Rosario, e la commemorazione della medesima beata Vergine» (Roma 1961, p. 152).

[2] Ad accomunarli è, tra gli altri, il beato Tito Brandsma (1881-1942), morto martire a Dachau: «Lo scapolare e il rosario dovrebbero essere stimati da noi; dovremmo anche riconoscerli come preghiera-libro che c’insegnano come dobbiamo e possiamo parlare con nostra Madre» (dal Discorso introduttivo al Congresso mariologico celebrato il 15-18 agosto 1931 a Zenderen, in E. Boaga, o.c., p. 303-305).

[3] L’invenzione era ascritta ora a Pietro Eremita, dimorante un tempo sul Carmelo, ora a san Bertoldo. Lezana, più prudentemente, spiegava che l’inventore (institutor) del rosario era indubbiamente san Domenico, avendo egli specificato un determinato numero di grani, cioè 63 o 150. Mentre a Pietro Eremita poteva essere concesso di aver iniziato la semplice e privata ripetizione del saluto angelico, senza specificarne il numero (V. Hoppenbrouwers, o.c., p. 313). Ulteriore segno è l’uso introdotto sempre in quel periodo di portare al fianco, attaccata alla cintura, una lunga corona (ib., p. 312). Malgrado questo impegno, non ci sono opere di rilievo sul rosario ma solo scritti occasionali. Tra questi segnaliamo i commenti di G. Brenninger (cfr. n. 14) e di Girolamo Gracián (1545-1614), discepolo e amico di Teresa d’Avila, Albero prodigioso, o dodici maniere di recitare il Rosario, cui va aggiunta una Spiegazione dell’Ave Maria.

[4] Vita 1,6 in S. Teresa di Gesù, Opere, Postulazione Generale o.c.d., Roma 1992, p. 43.

[5] Teresa de Los Andes - Juanita Fernández Solar, Diario y cartas, Madres Carmelitas, Los Andes 1983, p. 26.

[6] Ib., p. 30.

[7] A. Ballestrero, Autoritratto di una vita. Padre Anastasio si racconta, Ed. OCD, Roma 2002, pp. 102-103.

[8] Manoscritto autobiografico A, 23v°, in S. Teresa di Gesù Bambino, Opere complete, Libreria Editrice Vaticana – Edizioni OCD, Roma 1997, p. 110. Ella racconta che nella visita alla Santa Casa a Loreto pose la sua corona nella scodellina di Gesù Bambino (ib., 59v°, p. 170).

[9] Procès de Béatification et canonisation de saint Thérèse de l’Enfant- Jésus et de la Sainte-Face. II. Procès Apostolique, Teresianum, Roma 1976, p. 267. Dove lo avesse imparato lo si capisce da questa lettera della sorella Maria che descrive l’agonia della mamma: «Non lascia mai il suo rosario, prega sempre malgrado le sue sofferenze, ne siamo tutti ammirati, perché ha un coraggio e un’energia che non ha l’eguale. Quindici giorni or sono diceva ancora il suo rosario tutto intero in ginocchio ai piedi della Santa Vergine della mia camera, che lei ama tanto» (Zelia Guérin - Martin, Lettere familiari della madre di S. Teresa di G.B., Appendice, Ed. OCD, Roma 1996, p. 350).

[10] Ultimi colloqui. Quaderno Giallo, 20 agosto, 16, in Opere complete, p. 1079.

[11] Manoscritto autobiografico C, 25v°, in Opere complete, p. 264.

[12] Ib.

[13] Ib.

[14] Nonostante le precisazioni e le sfumature di Teresa, il testo dovette risultare quanto meno sconcertante, se la sorella Paolina (Sr. Agnese) decise di ometterlo dalle prime edizioni della Storia di un’anima. Cfr. V. Martinez Blat, La Virgen Maria en Teresa de Lisieux, in Teresa di Lisieux. Novità e grandezza di un Dottorato. Nel Centenario della morte (1897-1997) e nella proclamazione a Dottore della Chiesa di S. Teresa di Lisieux, Teresianum, Roma 2000, pp. 332-333.

[15] Così nella edizione italiana, Lettera 287, p. 502.

[16] «Non ha invece più importanza un rosario o l’altro perché Dio ascolti meglio ciò di cui si prega con l’una o con l’altra corona; l’anima deve anzi possedere quella preghiera che è accompagnata da cuore semplice e veritiero, senza badare che a piacere al Signore e senza darsi pensiero per un rosario più che per un altro, se non a causa delle indulgenze. Infatti trovare piacere nel possesso di un rosario prezioso, volere che esso sia in un modo piuttosto che in un altro e scegliere questa immagine più che quella senza guardare se ti aiuti maggiormente nell’amore di Dio, ma se sia bella e originale, che altro è se non riporre la propria gioia nello strumento? Se tu impiegassi l’appetito e la gioia solo nell’amore di Dio, non ti preoccuperesti per niente né dell’una né dell’altra cosa» (Salita del Monte Carmelo III, 35, 7-8, in S. Giovanni della Croce, Opere, Postulazione Generale o.c.d., Roma 1975, pp. 317-318).

«Molti non sono mai sazi di ascoltare consigli, di apprendere precetti spirituali, di possedere e leggere molti libri che trattano dell’argomento e passano il loro tempo più in questo che nel praticare come dovrebbero la mortificazione e la povertà interiore di spirito. costoro si caricano di immagini e di rosari di fattura originale: ora lasciano gli uni e prendono gli altri, talvolta li cambiano e li ricambiano, quando li vogliono fatti in un modo quando in un altro, affezionandosi ad una croce più che ad un’altra, perché più originale. Potrete poi vedere altri ricoperti di Agnus Dei, di reliquie e di nomina, come i fanciulli lo sono di gingilli. In tali cose io condanno la proprietà del cuore e l’attacco che queste persone hanno al modo, alla quantità e alla originalità di tali oggetti, poiché ciò è contrario alla povertà di spirito, la quale mira solo alla sostanza della devozione, servendosi unicamente di quanto è sufficiente a questo scopo, e avendo in fastidio tale molteplicità e originalità. Poiché la vera devozione deve nascere dal cuore e deve guardare soltanto alla verità e alla sostanza di quello che le cose spirituali rappresentano, tutto il resto è un attaccamento e una proprietà di imperfezione, cosicché è necessario mortificare questo appetito onde giungere ad una determinata perfezione» (Notte Oscura I, 3,1, pp. 358-9). E S. Giovanni afferma di conoscere una persona che pregava con una corona fatta con lische di pesce: «certamente la sua devozione non era meno preziosa agli occhi di Dio» (ib., 2). Stando alla testimonianza di fra Juan evangelista è probabile che si tratti dello stesso dottore mistico (cfr. J. Rodriguez - F. Ruiz, Obras completas, p. 446, n. 3).

[17] Salita del Monte Carmelo III, 35,5, in Opere, p. 316.

[18] Dottrina spirituale del Carmelo, LEV, Città del Vaticano 1952, p. 692.

[19] Cfr. J. Castellano Cervera, Il Rosario preghiera contemplativa, in L’Osservatore Romano, 22 gennaio 2003.

[20] Nella prima redazione: «In un primo tempo avevo pensato di dirvi qualcosa anche circa il modo di recitare l’Ave Maria. Sennonché mi sono tanto dilungata da rinunciarvi. Del resto, basta aver compreso come va recitato il Pater noster, per farsi un’idea esatta del modo in cui vanno recitate tutte le orazioni vocali in genere» (Cammino di perfezione 73,5 (Prima redazione, autografo di El Escorial), Città Nuova, Roma 1980, p. 285).

[21] Cammino di Perfezione 21, 2.3, in Opere, p. 635. La stima per la preghiera vocale è tale che non dimentica le possibilità di grazie legate al rosario: «Ecco una persona che ha un rosario indulgenziato. Se lo recita una volta, guadagna le indulgenze una volta, e più volte, se lo recita più volte. Ma se invece di recitarlo lo tiene chiuso nello scrigno, è meglio che non l’abbia» (ib. 20, 3, p. 632).

[22] Ib., 25,1, p. 653. Teresa può anche testimoniare alcune grazie mistiche legate all’esercizio del rosario: «Una volta, mentre tenevo in mano la croce del rosario, il Signore me la prese, e quando me la restituì era formata di cinque grandi pietre, assai più preziose del diamante. Vi erano scolpite le cinque piaghe del Signore in modo meraviglioso. E mi disse che d’allora in poi l’avrei sempre vista così» (Vita 29,7, in Opere, p. 282; cfr. ib. 38,1, p. 390). Così pure la carmelitana fiorentina S. Maria Maddalena de’ Pazzi (1566-1607), che narra di una visione di Maria: «Et il suo manto era di gloria incomprehensibile, tutto pieno di bellissime gioie, le quale essa Vergine mi disse: “Queste gioie me le hai fatte tu in dirmi il rosario, mettendo qui in questo mio manto per ogni parola di detto rosario una gioia. Et io te le voglio tutte serbare per quando verrai quassù in paradiso per adornarti”» (Maria Magdalena de Pazzis, I quaranta giorni, Firenze 1960, pp. 155-156).

[23] Cammino di Perfezione, 26,1, in Opere, p. 656.

[24] Ib., 24,2, p. 649.

[25] Ib., 22,1, p. 640.

[26] Ib. 22,3, p. 641. Nella prima redazione Teresa proseguiva con maggiore insistenza: «Ora io vi dico, sorelle, che se la riflessione esigita da questi due punti si facesse con la profondità dovuta, prima ancora di cominciare l’orazione vocale, ossia la recita delle Ore o del rosario, avreste già dedicato parecchie ore a quella mentale» (Cammino di Perfezione 37,3 (Prima redazione) cit., p. 146-147). E altrove: «…bisogna che vi avviciniate a Lui, e appena gli sarete innanzi, comprenderete chi Egli sia, con chi volete parlare o già forse parlate» (ib., 22,7, p. 643). «Io vi dichiaro che non so comprendere come l’orazione vocale possa essere ben fatta, quando sia separata dal pensiero di Colui a cui ci rivolgiamo. O che forse non è doveroso, quando si prega, pregare con attenzione?» (ib., 24,6, p. 651). L’osservazione è tanto più significativa se si pensa che nella prima redazione del Cammino Teresa diceva che questa pratica è «necessaria per essere vere monache, ed anche, a mio parere, per pregare da buoni cristiani» (Cammino di perfezione 40,4 (Prima redazione), p. 161).

[27] Ib., 25,3, p. 653-654.

[28] Vita 13,22, p. 140.

[29] Cammino di perfezione. 26, 3, p. 657. «O Signore!… Tutto il danno ci viene dal non tener fissi gli occhi su di Voi!» (ib. 16,11, p. 611).

[30] Ib. 26,4-5, pp. 657-658.

[31] K.H. Fleckenstein, Una stella d’Oriente. Vita e pensieri della Beata Maria di Gesù Crocifisso (Mirjam Baouardy), Ed. OCD, Roma 1989, p. 130.