di F. Iacopo Iadarola ocd

tappaquarta

4° tappa: Nazareth-Lago di Tiberiade

Sveglia alle 4:15 a.m., lasciamo Nazareth alla volta del Mar di Galilea: o Lago di Tiberiade, o di Genesaret, o di Kinneret, come lo chiamano gli israeliani dal nome dello strumento, una specie di arpa, di cui pare abbia la forma. Per uscire dal centro urbano prendiamo un autobus che ci porta qualche chilometro fuori città, all’altezza del “Museo” della Brigata Golani, una delle più decorate dell’esercito israeliano e che pertanto è stata fregiata di questo memoriale che ne ricorda la storia e le imprese. Ne costeggiamo la recinzione, e le nostre figure si confondono quasi con le spettrali silhouette di alluminio dei soldati che fanno parte di questo parco museale. Dopo qualche chilometro, invece, passiamo dentro un altro luogo caratteristico dell’Israele colonizzatore: il kibbutz.

Nati agli inizi del secolo scorso come luoghi di gestione comunitaria della terra, i kibbutz negli anni ’70 hanno raggiunto il loro momento di massima fama, quando dovevano sembrare concrete realizzazioni dell’utopia comunista. Don Gabriele, il nostro postulante presbitero, mi racconta che fra molti dei suoi compagni universitari, nel clima ideologico che si respirava negli anni della contestazione, era di moda farsi un periodo più o meno lungo di volontariato in queste comuni del deserto, dove tutto, dall’educazione al lavoro, era deciso dalla comunità per il singolo. Oltre poi ai kibbutz di stampo socialista ne sono sorti altri di carattere più religioso, proprio come questo che stiamo attraversando, con scuole interne confessionalmente molto marcate. Non siamo entrati in contatto con i membri di questa realtà, ma a giudicare da quanto ci dice P. Paco, e dallo stato di semiabbandono in cui versano i capannoni e i macchinari arrugginiti che vediamo, sembra proprio che i kibbutz ormai abbiano fatto il loro tempo, tanto quelli socialisti quanto quelli religiosi. Quelli che sopravvivono si stanno “privatizzando” o riciclando come agriturismi, e i lavoratori che li mandano avanti son sempre più semplici operai palestinesi al soldo dei dirigenti israeliani.

Ci lasciamo alle spalle le staccionate di questo ranch desolato e ci inoltriamo proprio in mezzo ai campi, per stretti tratturi, nell’aperta campagna che ci separa dalla nostra destinazione: un mare di grano, in cui fiammeggiano papaveri di un rosso dieci volte più vivo di quello che si vede in Italia. L’emozione è grande quando, dopo qualche altro chilometro, i riflessi al sole delle acque del Lago cominciano a sorriderci in lontananza, orlati dalle colline che lo circondano. Fra queste spicca in modo particolare quella di Arbela, ai piedi della quale è una stretta gola che ci indica chiaramente il percorso per cui scenderemo verso il lago. E scenderemo molto, dal momento che proprio qui comincia quella “Grande fossa tettonica”, che si estende per 6000 km dalla Siria al Mozambico e che in Israele coincide con la depressione giordanica e il lago di Tiberiade: come dice il nome, è propriamente una fossa, una spaccatura fra le placche tettoniche dell’Africa e dell’Asia, e scende per centinaia di metri sotto il livello del mare: il lago, infatti, è a -213 metri. 

Ma prima di imboccare la gola di Arbela, costeggiamo un luogo sacro della religione dei Drusi: la tomba di Jetro, il suocero di Mosè, da essi considerato il loro fondatore. Vediamo solo una fitta recinzione di palme che avvolge il luogo nel mistero, come di consueto per quest’esoterica religione. Infine la gola: stretta e brulla, occhieggiata di grotte che nei secoli ospitarono, ci racconta P. Paco, asceti e ladroni, zeloti e predoni. Attraversatala ci concediamo un attimo di pausa, prima di riprendere il cammino: anche se a vederlo il Lago ci sembrava vicino, siamo ancora a metà percorso! Tuttavia dobbiamo già fare la spesa, perché a destinazione non troveremo nessun negozio, e così alcuni di noi vanno con P. Paco in un villaggetto vicino, di cui ricordo il nome tradotto: “il villaggio dei colombi”. E’ un villaggio arabo, e lo si vede dai ritmi di vita: il proprietario di un piccolo spaccio ha montato un letto accanto al bancone della cassa da cui, sdraiato e guardando la televisione, aspetta i pochi clienti. Altri uomini stanno seduti al sole per la strada, pensosi, aspettando non si sa che. Compriamo il solito (pane, pomodori, energetico houmous, buffi salumi di pollo dal momento che il maiale è introvabile) e, distribuitoci il carico, ripartiamo per il Lago che ormai è davanti a noi, oltre strisce di fertili frutteti: sono manghi e banani, ma purtroppo non è ancora stagione e non possiamo sperare in qualche dolce dono della provvidenza da addentare.

Cammina cammina, è la tappa più dura del viaggio, sotto il sole meridiano e stracarichi di peso, con, per molti, le prime vesciche che cominciano a sbucare sui piedi. Ma anche se la stanchezza è tanta, quando arriviamo a Tabgha, che è il luogo dove alloggeremo proprio sulle rive del lago, nessuno ci ferma dal tuffarcisi di corsa! Il fondo è semimelmoso e ciottoloso, i piedi vi affondano, e la prima cosa cui penso è con quanta energia dovette dibattersi Pietro, in questa depressione non solo geografica, per correre verso il Risorto, quando apparve loro sulla riva…Più tardi ci spiegano che, effettivamente, proprio qui apparve Gesù come raccontato da Giovanni nel capitolo 21: il famoso episodio della pesca miracolosa dei 153 grossi pesci e della triplice domanda a Pietro da parte di Gesù: “Mi ami più di costoro?... Mi vuoi bene? … Pasci le mie pecorelle”.

L’avvenimento è stato gelosamente preservato dalla memoria delle prime comunità cristiane, che hanno addirittura individuato la roccia dove Gesù cosse il pesce per i suoi, quando li richiamò a riva. Ora questa roccia è inglobata da una chiesetta costruita dai francescani negli anni ’30 (la chiesa “del primato di Pietro”, su resti bizantini molto più antichi) che tuttora custodiscono il luogo. Luogo che faccio descrivere dalla viva voce della fonte più autorevole, la pellegrina Egeria (IV secolo):

«Non lontano da lì [da Cafarnao], si vedono i gradini di pietra, sui quali stette il Signore. Nello stesso luogo, sopra il mare, c’è un terreno coperto d’erba, con fieno abbondante e molte palme, presso le quali ci sono sette fonti, ciascuna delle quali fornisce abbondantissima acqua. In questo prato il Signore saziò il popolo con cinque pani e due pesci. La pietra sopra la quale il Signore mise il pane ora è trasformata in altare. I visitatori si portano via pezzetti di questa pietra per la propria salvezza ed è utile a tutti. Presso i muri di questa chiesa passa la strada pubblica, dove l’apostolo Matteo aveva il suo banco delle imposte. Sul monte lì vicino c’è una grotta nella quale il Signore proclamò le Beatitudini» (Appendix ad Itinerarium Egeriae, II, V, 2­3).

I “gradini di pietra” fanno riferimento all’attuale Chiesa del primato di Pietro, mentre il resto della descrizione fa riferimento ai dintorni di questo luogo, dove avvenne una delle moltiplicazioni dei pani (quella raccontata in Mt 14; Mc 6; Lc 9; Gv 6) e il discorso delle Beatitudini, che visiteremo domani. Le “sette fonti”, in greco, Heptàpegon, sono all’origine del nome abbreviato di Tabgha che designa tutta questa zona, fino alla vicinissima Cafarnao. Che andiamo subito a visitare: possiamo vedere i resti della casa di Pietro, trasformati in una suggestiva chiesa a pianta ottagonale in età bizantina - e sopra cui è stata sopraelevata (in senso letterale) la chiesa attuale - e la maestosa sinagoga di Cafarnao, i cui marmi bianchi e riccamente istoriati risalgono tuttavia al V secolo d. C., ben lontani nel tempo, quindi, dall’originaria Sinagoga dove Gesù tenne il cruciale discorso eucaristico riportato in Gv 6: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!... Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. S. Agostino nel suo magistrale commento a Giovanni metterà in relazione queste parole proprio con l’episodio citato sopra di Gv 21, dove abbiamo disteso i nostri sacchi a pelo e dove Gesù Risorto, dopo la pesca miracolosa, offrì pesce arrostito e pane ai suoi: “Piscis assus, Christus passus – pesce arrostito, Cristo sacrificato” come scrisse riassumendo nel suo genio poetico il Santo dottore della Chiesa.
Ovvero: nel pesce arrostito e nel pane di vita la Passione e Risurrezione di Cristo furono ripresentate – per essere concretamente condivise in un banchetto – davanti agli occhi dei suoi discepoli, così come ai nostri: noi che abbiamo avuto la grazia di essere annoverati fra quei 153 pesci che proprio qui han cominciato ad essere pescati e che ancora oggi sono chiamati a condividere, dolcemente, questa Morte e questa Vita eterna.
Ma “Lo amiamo noi?” - mi sembrano riecheggiare da allora, placide, le onde del Lago. 

(per leggere i resoconti delle altre tappe clicca qui)